Prima del jobs act
Alla fine, a metà settembre, la commissione lavoro del Senato ha approvato il testo che delega al governo Renzi la legiferazione in materia di lavoro. I tempi sembrano maturi per varare il “jobs act” più volte annunciato dal governo di Matteo Renzi che gode di una larga maggioranza parlamentare e, a quanto pare, di largo consenso nell’opinione pubblica. Di fatto una parte delle opposizioni, M5S e Sel, hanno interrotto polemicamente la partecipazione in commissione mentre la recalcitrante minoranza del Pd potrebbe non arrivare al prevedibile compromesso interno. Di fatto, il perdurare della crisi economica e la mancanza di investimenti, offrono l’occasione allo stesso Renzi, in visita negli Usa, per dirsi «consapevole che alcune cose vanno cambiate in modo violento» in Italia. Il punto di rottura simbolico è la rimozione della possibilità di reintegro sul posto di lavoro in caso di ingiusto licenziamento accertato dal giudice. Una casistica prevista in Italia solo per le aziende con oltre 15 dipendenti. La polemica sull’articolo 18 della legge 300 del 1970, già fortemente rimodulato con la riforma Monti-Fornero del 2012, rischia di attirare tutta l’attenzione senza offrire la possibilità di una seria riflessione sul cedimento strutturale in atto della “Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Il fondamento che vacilla
Diseguaglianze inaccettabili, licenziamenti collettivi con la traumatica espulsione degli ultra quarantenni, disoccupazione giovanile ai massimi livelli, precarietà imposta come destino di vita, sono alcuni dei volti che si ritrovano nella penetrante e partecipata riflessione dell’economista Luigino Bruni. Il Mppu italiano, assieme a Argomenti 2000, ha promosso, perciò, presso i locali della Camera dei deputati, un dibattito intorno al recente libro di Bruni, “Fondati sul lavoro”, edito da Vita e Pensiero. I criteri di lettura maturati, nel tempo, dal pensatore marchigiano hanno anticipato molte delle conclusioni a cui è giunto Thomas Pikketty, celebrato autore de “ Il Capitale del XXI secolo”, sull’avvento di un neofeudalesimo del sistema sociale che privilegia le rendite sul lavoro e sulla capacità di fare impresa («i nuovi padroni stanno pericolosamente assomigliando molto, troppo, ai vecchi feudatari»). Seguire il percorso della critica radicale, offerta da Bruni con linguaggio accessibile e pieno di esempi pratici, aiuta ad entrare nelle questioni centrali del pensiero economico attraverso una notevole conoscenza storica, poco praticata e diffusa nel mondo accademico rintanato nelle sicurezze dottrinali delle tesi dominanti e perciò incapace di offrire una credibile via di uscita dalla crisi. Così come avvenne, per fare un esempio, con gli strateghi della prima guerra mondiale che sacrificarono la vita di migliaia di fanti in trincea incuranti dell’inutilità delle loro tattiche.
Ciò che attraversano milioni di lavoratori è, infatti, una vera e propria guerra che conta le sue vittime. Non solo gli infortuni sul lavoro, come i quattro operai morti recentemente a Rovigo, ma la lenta distruzione interiore di senso di dignità per la mancanza di occupazione. «Ho rivisto da poco un amico che ha perso il lavoro e non sapeva cosa dire, aveva perso le parole» ha osservato Bruni che testo afferma: «il lavoro esprime la sostanza della democrazia perché incarna le differenze reali tra le persone, quelle che contano davvero».
Premesse per le regole sul lavoro
Bisogna perciò leggere e confrontarsi con il testo di Bruni come premessa ad un dialogo serio anche sulla disciplina del lavoro per avere consapevolezza della mutazione avvenuta di ogni aspetto della vita trasformato dall’individualismo liberista che rimuove lo sguardo dell’altro e la sua ferita.
Come referente della proposta di economia di comunione, Bruni aiuta a percepire il livello profondo della lacerazione in corso del tessuto sociale che rischia di perdere il senso autentico della gratuità e della festa dentro il mercato come luogo di reciprocità e non di mercificazione. Nessun millenarismo. Nessuna attesa vana, cioè, di realizzare, magari in ambiti modesti e irrilevanti, un mondo nuovo e perfetto ma la necessità di «non poter stare in pace finché le distanze misurate con il metro delle libertà effettive, dei diritti, delle opportunità e della dignità non si saranno ridotte e possibilmente annullate».
L’incontro romano ha visto come interlocutori Claudio Gentili, direttore de La Società ed editorialista de Il Sole 24 ore, Andrea Mazziotti di Celso, deputato di Scelta Civica, oltre ad una folta rappresentanza di società civile partecipe di un dibattito che merita una continuazione per confrontare l’orizzonte additato da Bruni e gli orientamenti prevalenti espressi dai due ospiti, presenti alla serata, espressione dell’area confindustriale e della scuola di pensiero del giuslavorista Pietro Ichino, dalla cui elaborazione sembrano provenire alcuni punti cardine di quella riforma della disciplina del lavoro disegnata dall’esecutivo Renzi. Assenti altri interlocutori annunciati all’incontro come Giovanni Paglia, deputato di Sel, e i presidenti delle commissioni lavoro di Camera e Senato (Cesare Damiano, Pd, e Maurizio Sacconi, Ncd). La questione resta viva, fonte di inevitabili conflitti e, proprio per tale motivo, sarà necessario poter offrire e promuovere spazi di dialogo autentico ed esigente sul fondamento,assai poco retorico, della convivenza.