Preti e manager?

In cerca di ragioni per spiegare il recente arresto del generale dei Camilliani, padre Renato Salvatore
Chiesa di Santa Maria Maddalena Roma foto di LPLT

L’arresto di padre Renato Salvatore, avvenuto nei giorni scorsi, per aver organizzato o in qualche modo avallato il rapimento di due confratelli per riuscire ad essere eletto superiore generale dell’ordine dei camilliani (superando d’un soffio un altro candidato, l’irlandese padre Frank Monks, che aveva tra i suoi impegni quello di “ripulire” l’ordine da un certo non limpido “sistema romano”), scuote tante coscienze. Come si sa i camilliani sono dediti all’assistenza ai malati e, per via di questa loro identità carismatica, hanno a che fare con la gestione di ambulatori, ospedali, ricoveri nel mondo intero. Una vocazione straordinaria, che ha dato e che dà alla Chiesa e all’umanità una gran quantità di persone sante che hanno servito il prossimo, e il prossimo malato, in modo esemplare ed eroico.

La vicenda dei camilliani riporta alla mente i casi recenti di don Verzé, che ha amministrato “con grave leggerezza” il grande ospedale di San Raffaele a Milano, e tutte le altre istituzioni nate al suo seguito, fino a giungere allo scandalo di una bancarotta evitata di poco. E non si può dimenticare l’altro caso legato all’Istituto dermatologico dell’Immacolata, il notissimo Idi, anch’esso amministrato in modo un po’ troppo spregiudicato da padre Decaminada, finito in manette.

Le domande, allora, non possono essere che queste: è giusto che dei preti si trasformino in manager della sanità? È mai possibile usare metodi illegali per arrivare ai propri fini? Come mai delle istituzioni di natura religiosa entrano in combutta con la malavita?

Le risposte non possono essere univoche. Bisogna lasciar lavorare la magistratura per appurare la verità di ogni singolo caso. Ma la coincidenza dei tre casi menzionati fa pensare. Credo che alla base di questi episodi non vi sia una deliberata volontà di distorcere l’identità carismatica di un gruppo e nemmeno la volontà esplicita di delinquere per raggiungere determinati fini. C’è piuttosto da costatare come al fascino del denaro, e alla sirena del potere che da esso viene, nessuno sia immune, nemmeno il più specchiato dei religiosi.

La sete di potere è capace di stravolgere le iniziali buone intenzioni di chiunque: nei casi segnalati all’origine sembra esservi il desiderio di rendere un servizio adeguato al proprio carisma, e quindi alla Chiesa e all’umanità, a cui subentra poi la convinzione di essere i soli a poter compiere quell’opera adeguatamente. È questa un primo compromesso con la limpidezza del proprio servizio, che apre la porta ad altri compromessi, sempre più pericolosi, e alla collaborazione con personaggi ambigui se non addirittura alla soggezione ai ricatti della malavita. Una catena di compromessi che non si riesce più ad interrompere. E che può portare fino alle catene del carcere. Antidoto a queste derive sarebbe, come sempre, una corretta applicazione delle regole che ogni congregazione o ordine si è dato all’epoca del fondatore e per l’opera dei riformatori. In questa direzione la condivisione del potere – in modo che un solo personaggio o un solo gruppo non detenga “tutta l'autorità”, o “tutto il potere” –, è sicuramente un deterrente agli abusi di ogni sorta.

Per concludere, mi si lasci auspicare che questi episodi non cancellino nell’opinione pubblica la convinzione che ordini come i camilliani producano un’enorme capitale immateriale di bene svolto in tutto il mondo con eroismo e amore sopraffino.

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