Prete a Rebibbia, intervista a don Roberto Guernieri
Cappellano nel carcere romano di Rebibbia da 26 anni, don Roberto Guernieri si definisce un “prete scomodo”, da sempre a contatto con le fragilità del nostro tessuto sociale.
Lo incontro in una palazzina modesta, riservata ai cappellani, accanto al grande carcere che è una piccola città parallela al quartiere Tiburtino.
Quanti sono i detenuti in questo momento a Rebibbia? E quanti i cappellani?
Circa 2.630, comprese 350 donne con una ventina di bambini da 0 a 7 anni. Siamo 6 cappellani. Tre sono dedicati al complesso più grande con 1500 detenuti per tutte le tipologie di reati. Esistono poi altre strutture più piccole dedicate, ad esempio, ai collaboratori di giustizia e alla lunga detenzione, i semiliberi e quelli da avviare ai centri per il recupero dei tossicodipendenti.
Si dice che i delinquenti veri restino poco in carcere, mentre i soggetti più poveri sono indifesi ed esposti alla scuola della violenza.
È così. Proprio in questi giorni mi sto occupando del caso di alcuni ragazzi fragili, “sfigati” anche nel senso della giustizia, perché sperano in qualche forma un’attenuazione della pena, ma ne vengono esclusi. Anche per i reati minori sono previste pene detentive. Chi non ha reti amicali e familiari rischia di restare impigliato nella macchina della giustizia e finisce per stare in carcere più del dovuto.
E il sovraffollamento?
Esiste e produce problemi gravissimi. La convivenza forzata tra persone che non si sono certamente scelte ma costrette a vivere a stretto contatto per tutta la giornata non può non produrre tensioni e problemi. Consideri 6 persone in una stanza 3 per 4 metri con annesso il bagno comune dove cucinano, mettono le loro cose e fanno i loro bisogni. Una piccola televisione. Non c’è spazio per muoversi se consideriamo il tavolo al centro con gli sgabelli. Insorgono gravi problemi di salute in un ambiente dove non vige la fiducia ma il sospetto, con la speranza che viene meno facilmente. Ci sono telecamere dappertutto, anche in chiesa. Per qualsiasi necessità bisogna fare una richiesta scritta, anche per lo spazzolino o la carta igienica.
Il numero dei detenuti in Italia, circa 60 mila, è molto basso se pensiamo ad altre nazioni. Ma il carcere riesce ad essere un luogo di riabilitazione per chi ha commesso un delitto?
No. Purtroppo non è tale. Il carcere può avere una funzione per contenere i casi pericolosi e irriducibili, come i mafiosi, che non vogliono cambiare in alcun modo. Può servire per mettere da parte gli autori dei reati sessuali che restano separati da tutti gli altri. Sono gli stessi detenuti “normali” che vogliono punire gli autori dei crimini contro donne e bambini. Ma per tutti gli altri reclusi che vogliono cambiare vita non serve a niente. Adesso è un parcheggio dove ci sono tante iniziative sostenute dai volontari e dalla stessa amministrazione, ma la speranza è fuori da queste mura.
La scuola interna è comunque un bel servizio…
L’accesso dalle elementari all’università è realmente garantito. Sono accessibili le biblioteche di reparto e quella centrale, ovviamente il tempo necessario a scegliere il libro da portarsi in cella. Anche quotidiani e periodici sono accessibili.
Cosa è necessario per favorire il reinserimento nella società?
Coltivare un rapporto libero e gratuito in vista della speranza di una vita diversa che consiste in due cose molto elementari: alloggio e lavoro. Lei prenderebbe in casa un ex carcerato, gli darebbe anche solo una stanza e la possibilità di un lavoro?
Casa e lavoro, tuttavia, mancano anche a chi è fuori. Non servirebbero istituzioni per questo?
Certo, ma c’è anche chi lo fa nonostante tutto. Con il mio ordine religioso ad esempio diamo possibilità di alloggio a detenuti in permesso premio con le loro famiglie nella casa del pellegrino al santuario del Divino Amore. C’è la Caritas. O la realtà promossa da Alfonso Di Nicola che segue 170 famiglie. Ma servirebbero tante altre esperienze.
A Roma c’è il caso Salvatore Buzzi, ex detenuto modello e poi imprenditore del sistema denominato Mafia Capitale. Non è la conferma del fatto che certe persone sono inemendabili?
Posso dire che non è così. Può capitare il singolo caso ma la realtà è diversa. Purtroppo esiste una forma mentis forcaiola, anche tra i cattolici, alimentata, come è comprensibile, dalla paura, ma soprattutto da una concezione pessimistica della natura umana. Esistono poca fiducia nella società e un diffuso senso di solitudine. Per cui, alla fine, davanti a tante contraddizioni si crede che si risolva tutto mandando le persone in galera. E io, invece, in questi 26 anni di lavoro in carcere ho capito una cosa.
Ho imparato a non giudicarli. Non giudicare, perché sono persone che hanno bisogno di tutto. Hanno magari avuto un momento nella loro vita che rischia di comprometterli per sempre. E poi per molti di loro la vita è partita male sin dall’inizio, con familiari già in carcere e la strada a fare da insegnante per sopravvivere. Poi, ultimamente, è emerso il fenomeno della dipendenza dall’azzardo che conduce a compiere atti estremi. C’è chi nasce in contesti mafiosi e a contatto con traffici di ogni tipo. Ci sono bambini di 12 anni che ricevono come regalo una busta con duemila euro e una pistola con l’invito a usarla per uccidere qualcuno e trattenere i soldi. “La mafia dà lavoro”.
Il carcere non rischia di rafforzare questa affiliazione?
Dipende da cosa vuole davvero ogni persona. Per la mia esperienza posso dire che esiste sempre la possibilità del cambiamento.
Cosa si può fare per coltivare questa speranza?
Bisogna fare qualcosa in concreto per i detenuti che spesso non hanno alcun riferimento fuori dal carcere. A volte noi cappellani siamo gli unici a mantenere un rapporto con loro. Mi è capitato di celebrare da solo, io e la bara, i funerali di qualcuno che si era suicidato. La notte è il momento più brutto del carcere. Da aver paura. Succede che mi vengono a chiamare perché muore un detenuto e c’è da benedire la salma, riconoscerlo, cercare i familiari…
La formazione del personale che lavora in carcere è cambiata in questi anni?
Certo è cambiata, ma sono sottodimensionati e si lamentano per la durezza dei turni e il mancato pagamento degli straordinari. Vivono una condizione di durezza e di forte stress e noi siamo qui per tutti. Recentemente sono stati introdotti dei centri di ascolto dedicati agli agenti di custodia. Rebibbia nasce nel 1965 come “carcere modello” diverso da quello più restrittivo, ad esempio, di Regina Coeli, ma le maglie si stanno restringendo anche qui.
Cosa proporrebbe di alternativo al carcere?
Per la maggioranza dei detenuti, non pericolosi come già detto, vedo bene il lavoro in una azienda agricola come attività rieducativa, mantenendo i legami con la famiglia quando esiste e quindi un ponte con l’esterno.
Alcuni criminali, comunque, vanno tenuti e sorvegliati in carcere…
È difficile credere a una capacità di emendarsi da chi ad esempio uccide qualcuno e poi lo taglia a pezzi per metterlo in una valigia. Si rimane sconcertati. C’è l’abisso del male con la M maiuscola che miete tante vittime. Ma allo stesso tempo tutti noi come cristiani, e io parlo da cappellano di un carcere, siamo portatori del messaggio della presenza del Signore che salva e non abbandona nessuno.
A Rebibbia ci sono cappellani di altre confessioni o religioni?
C’è il pastore ortodosso che segue i detenuti rumeni. Alcuni evangelici che fanno i colloqui. E poi ci sono, in tutta Italia, 450 ministri di culto dei Testimoni di Geova dedicati alle carceri e riconosciuti come tali dal ministero di Grazia e giustizia. Noi cappellani cattolici siamo in tutto 260 a livello nazionale.
E voi come fate così in pochi?
Il sabato e la domenica facciamo 13 messe ma vengono ad aiutarci diversi preti che studiano a Roma e poi un bel numero di volontari.
A spanne qual è la percentuale di detenuti stranieri?
Il 45 %, di provenienza prevalente dall’Est Europa.
Chi segue i detenuti musulmani?
Assieme alla Comunità di Sant’Egidio organizziamo ogni anno la festa del Ramadan e allora viene il loro imam, che, di solito, non li segue in carcere.
In genere si crede che arrivino aiuti sufficienti da tante reti di solidarietà in una grande città come Roma.
Ma così non è. C’è bisogno di tutto dentro queste mura. Anche un panettone a Natale che può sembrare banale, qui diventa importante. Alcuni non hanno niente. L’amministrazione consegna all’inizio il materiale delle pulizie o le posate, tutto in plastica ovviamente, e poi basta. Facciamo tante raccolte e le cose non bastano mai. Chi è poverissimo non ha da lavarsi. Per questo dico che la prima cosa è non schifarsi di nessuno ma accogliere tutti. Certo, sono situazioni in cui bisogna esercitare un forte equilibrio perché, di fronte a una grande richiesta di affetto, si rischia di uscirne prosciugati.
Come fate a difendervi?
La preghiera per me è una fonte di ricarica, ma sono anche richiesti periodi di pausa.
Da cosa è nata la sua vocazione specifica a essere cappellano di un carcere?
Sono una persona fortunata perché ho fatto sempre ciò che mi piaceva. Nato nel mantovano, a Ostiglia, sono stato sempre un prete scomodo. In seminario non volevano che facessi il sacerdote. Mi hanno mandato anche dallo psicologo ma non hanno trovato anomalie. Mio padre non condivideva il motivo di questa mia scelta, ma alla fine ha chiesto a un suo amico, per nulla praticante e che lavorava a Roma, se poteva cercare qualcuno che mi aiutasse. Ha parlato con il cappellano della Coldiretti che conosceva i preti del Divino Amore (storico santuario della capitale collocato nell’agro romano, ndr) e così son diventato sacerdote e, alla fine, sono stato ordinato dal vescovo di Mantova 34 anni fa. Ma prima ho fatto l’obiettore di coscienza alla Caritas di don Luigi Di Liegro e aperto, ormai da prete, alla stazione Termini, il centro di accoglienza dei minorenni a rischio. Lavoravo giorno e notte. Poi andavo in una comunità di accoglienza per tossicodipendenti e al reparto infettivo del Gemelli per accompagnare i giovani malati negli ultimi giorni della loro vita terrena. Ero molto forte allora, dormivo tre ore a notte. Adesso sono distrutto, sto facendo la chemioterapia ma vado avanti. I detenuti mi vogliono bene e mi coccolano. In carcere mi ha chiamato a starci il cardinal Ruini nel 1992. Mi ha fatto telefonare per poi farmi attendere tre giorni in cui mi son chiesto cosa avessi fatto mai. La sua proposta l’ho subito accettata perché in linea con le mie scelte di sempre.
E dopo tutti questi anni si è abituato a Roma?
La città, come si dice qui, è un “gran casino” ma io mi trovo bene. Ogni anno poi al mio compleanno organizzo una gran cena mantovana con amici cuochi che vengono dalle mie parti. L’ultima volta c’erano 640 persone che hanno fatto un’offerta destinata a sostenere i più poveri che si trovano in questo carcere. Se mi lascia il suo numero la invito.