Il presidente Kenyatta promette di riunificare il Paese
Subito dopo l’annuncio della sua vittoria, quando Uhuru Kenyatta è entrato nell’auditorium dei Bomas, la folla è scoppiata in un canto popolare di ringraziamento religioso: “Twasema Asante, Bwana Mungu wangu – Diciamo grazie, Signore Dio mio!”. Alla comunità internazionale presente per l’occasione, questa “esplosione di festa” potrebbe apparire come un’altra di quelle canzoni celebrative dell’Africa, ma qui c’è molto di più: c’è la tipica visione africana del mondo dove la presenza di Dio è ovunque e in tutto ciò che facciamo!
Di fronte alle telecamere del mondo, il neopresidente del Kenia ha iniziato il suo breve discorso prima di ricevere il suo secondo mandato, con un saluto comune tipico di queste parti: “Dio è buono!” . E il pubblico ha risposto coralmente “Sempre”. Ed è proprio a Dio che Kenyatta ha voluto indirizzare la sua gratitudine e può sembrare strano agli osservatori esterni ascoltare queste parole in un contesto politico e alla conclusione di una elezione altamente contestata, ma l’ingrediente religioso appartiene a questa parte di mondo e ne è un contributo fondamentale anche nell’esercizio della democrazia.
I keniani sono andati a votare in massa consapevoli della necessità di un esercizio maturo del voto, ma anche dei suoi risvolti religiosi e sociali: dopo una campagna fortemente polarizzata tutti desideravano la normalità, soprattutto dopo le contestazioni seguite quando i primi exit poll consegnavano la vittoria a Kenyatta. Le lettura dei media occidentali ha voluto sottolineare le manifestazioni e gli scontri con la polizia per presunte irregolarità nel voto, ma va precisato che queste rivolte sono accadute in zone isolate delle baraccopoli di Nairobi dove i sostenitori del NASA (National Super Alliance), il partito dello sconfitto Raila Odinga, hanno rifiutato di accettare l’esito delle urne provocando la morte di 24 persone. Risvolti tristi e dolorosi che testimoniano il costo elevato della democrazia in un paese come il Kenya, che sta cercando di affrancarsi dai sistemi di governo dittatoriali di molte nazioni confinanti.
Osservatori internazionali come l’ex presidente sudafricano Thabo Mbeki, capo degli osservatori dell’Unione africana, e John Kerry, ex segretario di Stato americano, presente a nome del Carter Center e molti altri hanno elogiato il processo di voto “sereno e credibile” e hanno consigliato ai perdenti di accettare la sconfitta e a tutti i candidati e partiti di risolvere le controversie all’interno della legge e del sistema giudiziario. La principale organizzazione per il monitoraggio delle consultazioni elettorali, la Election Observation Group (ELOG), ha dichiarato di non aver trovato alcuna prova che le elezioni siano state manipolate o che il risultato sia inesatto. Certo non tutto è perfetto e nel sistema elettorale ci sono aspetti notevolmente migliorabili, ma è un cammino con tante sfide ed è certo che il Kenya non vuole indietreggiare, né sottrarsi alle problematicità.
Kenyatta è consapevole che il percorso del suo secondo mandato sarà duro e che le ferite di queste elezioni non saranno sanate facilmente e quasi metà della popolazione uscita sconfitta alle urne non è sicura di avere adeguati rappresentanti nel nuovo governo ed è schiacciata dalla sofferenza. Proprio per questo il presidente, nel suo primo discorso, avvicinandosi ai leader dell’opposizione ha dichiarato: “A noi fratelli e concorrenti degni, dico che non siamo nemici, ma siamo cittadini di una Repubblica. E come ad ogni consultazione, ci sono sempre vincitori e sconfitti, ciò non toglie che restiamo membri di una sola nazione “.
Rivolgendosi poi a Raila Odinga, suo avversario sconfitto alle urne, Kenyatta ha chiesto di lavorare insieme perché “svilupperemo insieme e costruiremo questo Paese insieme. Le elezioni vengono e vanno, ma il prossimo continuerà ad essere il tuo prossimo sempre”. E ha concluso invocando la pace e la cessazione di ogni violenza perché “anche noi politici passeremo”.