Presidente e fuoricasta
La sua morte ha fatto scalpore non tanto per aver tenuto la massima carica della più grande democrazia del mondo per cinque anni piuttosto turbolenti e nemmeno perché sotto la sua presidenza, nel 1997, l’India ha festeggiato il mezzo secolo di indipendenza. Ciò che aveva reso K.C. Narayanan famoso era la sua estrazione sociale: era un dalit. Parola strana e forse nuova agli orecchi occidentali. Significa fuoricasta, paria, harijans, come Gandhi li aveva chiamati, con un epiteto che significa figli di Dio. Tutti abbiamo sentito qualche volta nella vita almeno uno di questi termini, ma nessuno di noi può capire che cosa significhi per una persona essere un dalit in India. È importante presentare dei fatti che ne descrivano la situazione attuale o, comunque, quella degli ultimi cinquant’anni. Il Mahatma Gandhi, che pure ha sempre parlato delle caste come di una struttura sociale ideale, ha combattuto tutta la vita contro la discriminazione nei loro confronti. Disse una volta: Se dovessi rinascere nella prossima vita, vorrei essere l’infimo degli esseri viventi, un harijan. E per un indiano, è bene sottolinearlo, esseri viventi significa tutti gli animali ed esseri umani sulla faccia della terra. In tutti, infatti, secondo gli indù, un’anima si può reincarnare nelle vite successive. Il Profeta della pace, poi, si rifiutò per ben quattro volte di entrare nel tempio di Meenakhsi a Madurai, antico monumento della fede del sud India, una delle bellezze dell’architettura dravidica, sputo che il comitato di gestione del Tempio ne vietava l’accesso ai fuori casta. Ma le cose non sono cambiate molto. Ecco quanto un amico, anziano leader gandhiano, mi raccontava recentemente. Durante un incontro con il comitato direttivo di un villaggio (il panchayat), eletto dalla popolazione locale, aveva avviato una discussione con i cinque membri, sotto la veranda della casa di uno di loro, il vice-presidente. Intanto, aveva notato che uno dei cinque, non solo non era seduto sulle sedie come gli altri,ma se ne stava accovacciato per terra fuori della veranda a debita distanza. Quando, nel corso della discussione, volle sentire il parere del presidente, si accorse che si trattava della persona seduta fuori della casa. Gli chiese di salire e sedersi con gli altri: non ci fu nulla da fare. Il pesidente rimase dov’era: era, infatti, il responsabile del Panchayat, ma restava un dalit e la sua presenza avrebbe contaminato la casa e le persone che vi sedevano. Un altro esempio, di cui sono stato testimone.Mi trovavo in Italia ad una cnferenza su iduismo e cistianesimo, organizzata da una fndazione di gran nome. Una delle relatrici indiane, il cui nome tradiva la provenienza brahamina, alla fine del suo intervento, si trovò, piuttosto imbarazzata, a dover spiegare ad un interlocutore la natura della struttura castale indiana. Da buona brahamina ed accademica,si riferì alla tradizione indù e ai vari testi sacri che giustificano da mil- lenni questa impalcatura sociale. Non le era sfuggito che fra i presenti c’era un gruppo di indiani. Non solo; sapeva benissimo, come solo gli indiani sanno indovinare, che erano dalit. Al termine della spiegazione piuttosto arrancata, fu apostrofata in modo violento, fra l’imbarazzo dei presenti che non capivano cosa stesse succedendo. Voi (riferendosi ai brahimini) avete schiacciato per secoli la gente come noi, come giustificate questa violenza gratuita: milioni e milioni di persone che vivono senza la minima dignità umana?, tuonò uno dei giovani presenti, ovviamente dalit. La professoressa balbettò qualcosa fino a che un professore d’indologia italiano, la tolse dall’imbarazzo. Queste tre situazioni possono fare intuire, almeno un po’, quanto il problema dei dalit sia sentito e vissuto ancora oggi da milioni di persone che non hanno dignità di alcun tipo. È in questo contesto che assume il giusto rilievo la figura di Narayanan. Nato in un piccolo villaggio del Kerala, lo stato all’estremo sud dell’India, per frequentare la scuola doveva camminare quindici chilometri al giorno. Nonostante la povertà estrema della famiglia, riuscì a laurearsi in Lettere con la lode. Il suo desiderio era quello di restare all’università come docente, ma non fu accettato. Gli fu proposto un lavoro da impiegato nella segreteria. Il giovane rifiutò il posto e con esso anche la laurea. Dopo qualche tempo, a Delhi, iniziò la carriera di giornalista con un grosso fiore all’occhiello: riuscì ad intervistare anche il Mahatma. La sua storia diventa quasi una favola quando ottiene una borsa di studio per la prestigiosa London School of Economics. Un grande industriale indiano, uno dei magnati, J.R.D. Tata, gli assicurò la copertura economica per tutta la durata degli studi, da parte della sua fondazione. Fu la svolta nella vita di Narayanan. Completati gli studi e tornato in patria, entrò in carriera diplomatica negli anni successivi all’indipendenza. Percorse tutta la scala fino a diventare il primo ambasciatore dell’India in Cina, dopo che i due paesi, nel 1976, riallacciarono i rapporti diplomatici. La sua prestigiosa carriera, già passata per Mosca non finì a Pechino: la sua nomina conclusiva fu a Washington. Gli ultimi vent’anni lo hanno visto attivo in politica, ma sempre al di sopra dei giochi e degli interessi di parte. Tutti hanno sempre riconosciuto in lui una personalità integra, che non prestava il fianco alle solite denuncie per scandali, corruzione o pagamenti illegali di fondi. Non ha mai accettato compromessi, nemmeno da presidente. Cosciente, infatti, dei suoi poteri costituzionali, non ha accettato il ruolo di presidente da occasione, come vari dei suoi predecessori erano stati chiamati, e nemmeno di burattino in mano di politici scaltri. In più di un’occasione, ha rifiutato di firmare decisioni su raccomandazione di politici, chiedendo un maggiore impegno per la soluzione di impasse politici fra partiti locali. D’altra parte non ha nemmeno prevaricato i limiti, impostigli dalla costituzione. Nel 2002 lo stato del Gujarat fu triste teatro di scontri fra indù e mussulmani con migliaia di morti fra quest’ultimi. Il primo ministro locale fu fortemente sospettato di essere, in qualche modo, all’origine degli incidenti di chiara natura politica. Narayanan, allora Presidente, ebbe una lunga conversazione con l’allora primo ministro Atul Vajpayee (appartenente allo stesso schieramento politico del premier dello stato in questione) sulla situazione dello stato, che aveva dato i natali al Mahatma Gandhi. Nessuno seppe mai cosa si dissero, ma senza dubbio Narayanan parlò con chiarezza sull’aspetto costituzionale e legale riguardo alla protezione delle minoranze. Che la sua figura fosse super partes è senza dubbio provato dal fatto che la sua elezione a presidente fu quasi unanime, mettendo insieme schieramenti politici allora difficilmente conciliabili. Narayanan lascia una grossa eredità: esempio encomiabile di ragazzino harijans arrivato a rappresentare a diversi livelli il suo paese nel mondo e a diventarne poi la massima autorità. Ma soprattutto lascia una ricchezza di valori che forse nessuno meglio dell’attuale premier, Manmohan Singh, ha saputo esprimere: Si è imposto come una delle personalità di primo piano del nostro paese, sapendo affrontare con coraggio difficoltà ed avversità di ogni tipo, ma soprattutto pregiudizi sociali. Personalità sagace nel nostro panorama politico, è stato simbolo del trionfo della giustizia sociale, oltre che ad essere riconosciuto per il suo immenso talento in ambito diplomatico, come scrittore, umanista e pensatore originale. Soprattutto però è stato un eccellente essere umano. Una prova? Negli oltre quarant’anni di carriera diplomatica e politica, Narayanan non ha mai accennato alle sue orgini, che tutti conoscevano, e non ha mai vantato meriti acquisti per aver sfondato un muro che ancora oggi è per i milioni di dalit impenetrabile. CHI SONO I DALIT La struttura sociale indiana è probabilmente quella che resiste da maggior tempo, vantando radici che risalgono a un millennio a.C. Sono i libri sacri della tradizione indù ad aver ispirato e successivamente sancito una divisione sociale, che non era molto diversa da quella delle altre civiltà precedenti o dello stesso periodo. L’induismo non si differenzia, infatti, dalle altre civiltà. Ma bisogna considerare che quelle sono crollate ed esso è ancora qui con noi oggi. Quale la sua chiave di lettura della sua struttura sociale gerarchica che va sotto il nome di sistema castale?. Un dualismo molto semplice: il puro e l’impuro. Non tutti potevano avere contatto col tempio o con le scritture. Solo i brahamani, sacerdoti, ne erano ammessi. Altri avevano il compito di difendere, gli kshatrya, altri di assicurare una economia florida, commercianti e contadini, i vaishya. Infine mestieri come i calzolai o barbieri erano realizzati solo dai sudras, praticamente i servi. Alcune azioni erano considerate pure ed altre impure, la vita stessa di ogni giorno era scandita dalla alternanza di momenti purificatori dopo azioni contaminanti. Anche qui nulla di nuovo: molti popoli avevano lo stessa concetto. Qui però ha resistito. Perché? Non dobbiamo dimenticare una seconda caratteristica che ha servito poi da collante nei secoli: l’ereditarietà. Di un gruppo sociale in India si nasce, non si diventa. Quindi il concetto di puro ed impuro si perpetua grazie all’ereditarietà che compagina in definitiva una società dove ognuno trova il suo posto. Questo in India, pur con modificazioni e mobilità interne, dura da millenni. Dove si collocano i dalit? Sono gli abitanti dell’India che non trovano posto in questa struttura. Non hanno una dignità che si possa definire umana. Le loro occupazioni sono le più abiette: spazzini, pulitori di latrine o becchini. I dalit sono milioni ancora oggi. La costituzione vieta la discriminazione contro di loro, che di fatto è però talmente radicata che niente riesce a scalzarla.