Presenti nonostante tutto
Un esercito della pace di cui il nostro paese può vantarsi, quello degli operatori umanitari o volontari che dir si voglia. Li immaginiamo sempre in trincea, a impiegare tempo ed energie al servizio di gente disperata. Qualcuno parte per un breve periodo, altri per anni, altri ancora finiscono per passare così tutta la loro vita. C’è chi li definisce eroi, oppure idealisti o amanti del rischio… Apriamo la nostra intervista a Sergio Marelli, presidente dell’Associazione delle ong italiane, chiedendo di descriverci questo mondo, lui che lo conosce dal di dentro. Uno degli effetti della vicenda delle due Simone è stato, infatti, senza dubbio quello di far riflettere sul ruolo di questi operatori umanitari. Ma ci vogliono proprio queste cose per far riflettere sul fatto che tremila cittadini italiani stanno svolgendo in questo momento un servizio di volontariato in 82 paesi portando avanti 2200 progetti? Siamo oramai così assuefatti ad un tipo di informazione che se ne occupa solo quando c’è la tragedia? E se ne dimentica appena dopo, così come fa coi mille altri drammi che attanagliano tanti altri paesi del mondo, continente africano in prima battuta?. Esordisce così il mio interlocutore che ci tiene anche a sottolineare che il sequestro riguardava quattro operatori umanitari delle ong: due nostre concittadine e due volontari di nazionalità irachena per la cui liberazione si è sempre invocato uguale impegno. E prosegue: Io continuo comunque a sperare che questa riflessione innanzitutto non porti a delle strumentalizzazioni o a gettare fango sull’opera di queste quattro persone come di tutti gli altri volontari che eminentemente resta un’opera di grande valore umano, innanzitutto, per noi, poi, anche di grande significato dal punto di vista evangelico. Persone che sono tutt’altro che degli eroi o degli ingenui. Non dimentichiamo che l’età media dei nostri volontari è di 36 anni, per cui starei un pochino attento a citarli di ingenuità o di non professionalità. Sono probabilmente persone di straordinaria quotidianità che hanno compreso che ognuno deve fare la propria parte, assumersi la sua responsabilità, a livello singolo come a livello organizzato e istituzionale. Per quale scopo? Certo, per aiutare chi sta in situazioni svantaggiate, occuparsi di quelli che sono emarginati e schiacciati dalle nuove schiavitù, ma soprattutto perché hanno capito che il futuro, anche qui in Italia, dipenderà dalla possibilità di garantire una vita degna e umana per tutte le donne e tutti gli uomini del pianeta. Senza giustizia non c’è pace, ha detto Giovanni Paolo II, e senza pace non c’è sviluppo. È una frase che potrebbe restare come slogan di tutto il volontariato delle ong. Qual è lo stato di salute del volontariato italiano? Io penso che sia uno stato di salute ottimo, senza assistenza sanitaria. È un paziente che sta bene, lo dimostra la grande disponibilità, la continua richiesta di prestare servizio da parte di giovani ma non solo. Il problema è che non è assistito, che cioè, nel caso in cui dovesse ricorrere al sostegno di qualche mutua, il nostro stato è tutt’altro che pronto a sostenerci e ad aiutarci. La cooperazione internazionale e quindi anche i contributi per le organizzazioni non governative sono in continua diminuzione, sono la posta di bilancio dentro la quale sempre più frequentemente e con maggior facilità si attinge per risanare i conti dello stato e poco importa se per questo, ad esempio, non si mantiene l’impegno assunto di versare 100 milioni di euro per il fondo globale della lotta contro l’Aids. Proprio di recente lei ha denunciato la tendenza del nostro paese a decurtare i fondi previsti per la cooperazione internazionale. Sì, sono successi due fatti proprio in questi giorni. Il primo è che nel decreto di assestamento di bilancio, quello che ogni anno il governo fa nell’ultimo trimestre dell’anno per riassestare i conti, il ministro del tesoro ha riproposto, per la terza volta consecutiva, di tagliare 250 milioni di euro alla cooperazione che equivale ad azzerare ogni progetto in tale direzione. Il secondo fatto con cui stiamo misurandoci in questi giorni è la finanziaria 2005. Nonostante gli impegni presi a livello internazionale (in sede di Nazioni unite), e nono- stante l’impegno assunto nel consiglio dei ministri dell’Unione europea a Barcellona nel 2002 di incrementare fino allo 0,27 per cento del Prodotto interno lordo i fondi per la cooperazione nel 2005, la proposta sulla finanziaria del prossimo anno è ancora in decremento rispetto al 2004 con un passaggio dallo 0,16 attuale allo 0,14. Ci viene sempre detto dal governo che i tagli alla cooperazione sono determinati da una situazione finanziaria preoccupante. Non capiamo però come, nella stessa finanziaria, nel 2004, non si sia fatta nessuna difficoltà a trovare i fondi per finanziare le missioni militari. Alcune ong però hanno affermato di aver operato senza alcun ricorso ai finanziamenti statali. Come stanno le cose? Sono contento per loro. Penso che sia un fatto positivo. Non è infatti una situazione di oggi quella dei tagli ai fondi per le ong quindi è bene diversificare le fonti di finanziamento. L’Unione europea e le Nazioni unite sono senz’altro due fonti dove noi attingiamo contributi sostanziosi e soprattutto è stata incrementata molto la raccolta privata, presso i singoli cittadini, nelle parrocchie, nei gruppi d’appoggio, nei territori. Il 40 per cento del nostro bilancio (300 milioni di euro all’anno) oggi proviene da tali entrate. Ciò non toglie che, comunque, abbiamo tutto il diritto di ricevere i contributi del nostro governo che gestisce dei fondi pubblici . Non pensa che spesso si crei una sorta di sovrapposizione fra operazioni militari cosiddette di mantenimento della pace e intervento umanitario, e che questo confonda la popolazione stessa che ne è destinataria? La confusione sarebbe il male minore. Quello che ne consegue è, paradossalmente, una maggiore insicurezza e una messa a repentaglio dei nostri interventi. Da qualche anno e tanto più con l’Iraq, si tende a spacciare gli interventi militari per azione umanitaria. Questo non può mai avvenire, nemmeno nel caso in cui ad intervenire attraverso l’uso della forza e delle armi fossero i contingenti delle Nazioni unite. Le operazioni di polizia internazionale (i caschi blu) che, purtroppo a volte sono necessarie, mai possono essere confuse con l’intervento umanitario. Figuriamoci in Iraq, dove le forze armate presenti non sono delle Nazioni unite, sono al di fuori del diritto internazionale, sono quelle che hanno scatenato una guerra preventiva e unilaterale. La preoccupazione è che creare questa confusione e sovrapposizione fra intervento armato e aiuto umanitario metta a repentaglio la nostra azione che è tutt’altra cosa rispetto alle armi. Quando gli aiuti umanitari vengono portati insieme ai mitra si perde la credibilità, la fiducia della gente, si impedisce la collaborazione con la popolazione locale e quindi si invalidano anche i progetti di aiuto umanitario. Parliamo di sicurezza. Un problema preoccupante per la vita stessa di tanti operatori. Com’è la situazione? Certo non è un problema di adesso né tantomeno un problema che abbiamo solo in Iraq. È la costante del nostro lavoro sulle decine di fronti di guerra dove operiamo: Somalia, Sierra Leone, Angola, Colombia, Indonesia, Sri Lanka, Israele, Palestina solo per dirne alcuni. In tutti questi casi ci siamo dati dei codici di autocondotta con regole ben precise perché è evidente che, proprio perché non siamo eroi, la prima cosa da garantire è la sicurezza dei nostri operatori. In Iraq, temporaneamente, abbiamo deciso di spostare il nostro personale nei paesi limitrofi, ma i nostri progetti continuano, non c’è solo la Croce rossa. Non abbiamo mai abbandonato i campi profughi a Falluja anche se non siamo interessati a farci pubblicità . La rete della cooperazione internazionale riuscirà ad essere ancora un segno di speranza in questo nostro mondo oscurato da guerre, terrorismo, fame,Aids…? Io penso che non ci sia un’altra strada. Ne siamo convinti noi, ne è convinto il papa, ma anche tutti coloro i quali riconoscono l’inutilità e l’insensatezza del ricorso alla forza. Violenza crea violenza, è una spirale dimostrata ovunque. È quello che ci viene detto dalla gente comune, dai nostri partner locali. Ancora oggi in Iraq ci chiedono di non andare via, di non abbandonarli, perché tra la guerra e il terrorismo, due crimini a pari merito, ci dicono: Voi siete la nostra speranza, restate al nostro fianco.