Prendersi cura dei bambini poveri
Da ragazzo, Giovanni Fabris ha anche incontrato il carisma dell’unità di Chiara Lubich e i focolari sono la sua famiglia, il suo impegno è quello di vivere l’ideale del mondo unito. Sposato da 25 anni con Lucia, tre figli, Davide e Gianluca all’università e Ilaria al liceo, Giovanni e la sua famiglia vivono in Valpolicella, alle porte di Verona.
«Lavoro presso l’Istituto Don Calabria di Verona dal 2005 – inizia a raccontarci Giovanni –, nella Casa Madre e Casa Generalizia della Congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, fondata all’inizio del secolo scorso da san Giovanni Calabria, un sacerdote diocesano che ha seguito Gesù nella chiamata ad occuparsi dei bambini abbandonati che vagabondavano per le strade di Verona. Se ne prese cura educandoli, insegnando loro un lavoro e seguendoli anche quando, raggiunta la maggior età, lasciavano la sua casa. Così, tanti di loro sono riusciti a riscattare la loro situazione di povertà creandosi un futuro, una famiglia».
Cosa ti appassiona del tuo lavoro?
Sicuramente lavorare in un’Opera di Dio è una fortuna, oserei dire un dono. Ho lavorato per quasi vent’anni in aziende normali, for profit, costruendo anche buoni rapporti con colleghi e titolari. Ma avendo come fine il profitto (principalmente quello del titolare) ho visto che quando si manifestavano difficoltà interne o commerciali, i rapporti si logoravano fino a sfociare in liti e crisi personali e aziendali. Anche ora vivo difficoltà e momenti di tensione, ma il fine è ben determinato e chiaro, c’è una forte volontà ad andare avanti, a servire meglio e sempre più i poveri.
Come influenza la tua vita il fatto di avere la possibilità di conoscere e lavorare con persone di altre nazionalità?
Sicuramente ci sono differenze nella visione della realtà e nell’approccio professionale, e collaborare insieme spesso diventa una sfida. In questo mi aiuta molto quello che Chiara Lubich mi ha insegnato sin da piccolo, l’arte di amare, il farsi uno, cercare di comprendere e far proprie le difficoltà dell’altro. Con tanti ci si vuole bene, e quando ci si incontra è proprio bello stare insieme. Tanti religiosi sono venuti a cena a casa nostra e anche mia moglie e i figli hanno potuto conoscerli. Anche per la nostra famiglia avere questa possibilità, questo sguardo sul mondo un po’ particolare è una opportunità molto stimolante.
Come concili la realtà di stare in contatto con i due carismi, quello dei focolari e il carisma calabriano?
Sono nato in una famiglia che ha conosciuto Chiara e il Movimento dei Focolari negli anni ‘60. Grazie ai miei genitori, ho fatto parte del Movimento sin da quando ero bambino e anche oggi partecipo e lavoro concretamente per diffondere il carisma dell’unità.
Ho sperimentato la matrice unica di questi due carismi che sono stati dati alla Chiesa dallo Spirito Santo. La Sua fantasia ci dà la possibilità di fare il cammino che più si addice alle nostre caratteristiche, ma l’importante è la meta e quella è la stessa! Anzi quando riesco a vivere il Vangelo nella mia vita, sul luogo di lavoro, mi sento pienamente focolarino, ma altrettanto calabriano.
Don Calabria chiedeva ai suoi di essere Vangeli viventi, Chiara mi ha insegnato a vivere la Parola di Vita, per cui non c’è alcuna differenza. Quello che sperimento è che attraverso il dialogo tra carismi vi può essere la possibilità di un reciproco arricchimento.
Chiara Lubich aveva conosciuto Don Calabria?
Sì, si sono conosciuti nel 1948. Lei era venuta a Verona a incontrarlo perché già allora aveva la fama di essere un santo sacerdote e a lui aveva parlato del nascente movimento dei focolari. Don Calabria l’aveva incoraggiata ad andare avanti su quella strada e aveva affidato alle focolarine la cura spirituale di alcune donne, cosa che poi è avvenuta, e così i focolari si sono diffusi anche a Verona. Ogni giorno, prima di andare in ufficio, passo dalla chiesa e prego davanti alla tomba di don Calabria, gli raccomando di starmi vicino perché l’ “azienda” è sua e gli chiedo di “salutarmi Chiara”.
Quali esperienze ti porta a fare questo lavoro?
Sicuramente un’esperienza molto forte è venire a contatto diretto con tanta povertà e vedere la dedizione di tanti missionari che danno la loro vita per Dio nei poveri: penso di aver conosciuto tanti santi dei nostri giorni. L’anno scorso, fra le varie missioni in India, ne abbiamo visitata una nello Stato dell’Assam, in un piccolo paese nella foresta. La parrocchia comprende 18 villaggi, alcuni dei quali raggiungibili solo a piedi. È stato toccante conoscere la piccola comunità religiosa: abbiamo visitato alcuni villaggi, assaggiato il cibo locale molto semplice e naturale come i bachi da seta. Insomma, lì, i missionari fanno parte in pieno della comunità locale, “i pastori hanno l’odore delle pecore”, proprio come auspica papa Francesco.
Cosa ha fatto maturare in te il lavorare a stretto contatto con i calabriani?
Sicuramente venire a contatto con questo carisma della Chiesa mi ha aiutato molto e mi ha fatto sperimentare come Dio intervenga nella nostra vita di tutti i giorni. Tante volte in ufficio arrivano richieste di aiuto e in quel momento non sappiamo come soddisfarle. Dopo qualche giorno, e in alcuni casi solo dopo qualche ora, si presenta qualcuno che ci offre una somma di denaro da destinare alle missioni dandoci modo di assolvere a quelle richieste.
La nostra società ci spinge ad accumulare, a cercare la sicurezza nelle cose materiali mentre San Giovanni Calabria mi ha insegnato che è molto meglio riporre le nostre sicurezze in Dio affidandoci alla Divina Provvidenza e solo così Lui avrà lo spazio per agire nelle nostre vite. Proprio com’è successo a me quando mi ha dato la possibilità di poter venire a lavorare in questa Sua Opera.