Prendersi cura
"La caduta delle farfalle" ci invita, seppure indirettamente, a comprendere di più e meglio l’essenza dell’aiutare qualcuno a cui teniamo particolarmente, in altre parole a capire cosa esattamente significa quando abbiamo “cura” di una persona che ci interessa.
Normalmente con il termine “cura” si intende l’accudimento, l’attenzione, la sollecitudine, la premura, l’aiutare, l’interessamento, ecc., verso una persona con un atteggiamento costante, solerte e continuativo, fino ad arrivare a mostrare, in determinate situazioni, una certa preoccupazione o inquietudine e, qualche volta, addirittura ansia.
La cura è uno stato affettivo che consiste nel riconoscimento di un altro, un essere umano al pari di noi; l’identificazione del proprio sé con il dolore o la gioia di un altro; nella pietà e nella consapevolezza che tutti abbiamo un fondamento comune di umanità dal quale tutti deriviamo.
Cura è quindi uno stato nel quale qualcosa ha importanza; cura è l’opposto di apatia. La cura è la necessaria fonte dell’impulso ad amare creativamente, la fonte della tenerezza umana, tanto che essa si associa spontaneamente alla nascita di un bambino: dal punto di vista biologico, infatti, se il bambino non fosse curato dalla madre, sopravvivrebbe a stento al primo giorno di vita. Sappiamo, dalle ricerche sugli orfanotrofi di René Spitz, che il bambino, se nell’infanzia non è oggetto di cure materne, si apparta in un angolo del letto, deperisce, non si sviluppa.
In genere si pensa che la cura sia una prerogativa tipicamente femminile, che si esprime nell’allattare i neonati, assistere gli anziani, cucinare per la famiglia, tenere in ordine la casa, curare le relazioni parentali, dialogare tantissimo, ecc.; in effetti non si ha torto, perché quando il cervello femminile è sotto pressione ed è inondato dall’ormone dello stress chiamato cortisolo, esso si difende rilasciando un ormone antistress che si chiama ossitocina, l’ormone del rilassamento che si attiva attraverso un atteggiamento di “accudimento” in generale.
Si tende a pensare che la cura non appartenga invece all’universo maschile, ma ciò è falso: anche l’uomo può vivere la cura, ma ha un modo differente di offrirla, e cioè cercando sempre una soluzione davanti alle situazioni critiche che deve affrontare. Questo accade perché il cervello maschile è prevalentemente inondato dall’ormone antistress che si chiama testosterone, l’ormone del rilassamento che si attiva attraverso un atteggiamento di “protezione” in generale. Una interessante riprova di quanto stiamo dicendo ci è fornita dall’autore stesso del racconto, che è un uomo, e come protagonista maschile offre il suo particolare modo di “cura” alla sua ragazza che si trova in una situazione di pericolo di vita, come quando scrive, ad esempio: «…di quanta protezione avevi bisogno…», oppure quando, descrivendo la sua ragazza come una farfalla caduta, scrive che qualche volta: «Le farfalle non chiedono di essere protette». La stessa protagonista femminile del racconto, una volta fuori pericolo, riconosce che gran merito della sua guarigione va alla “cura protettiva” del suo ragazzo sempre presente al suo fianco, pur ammettendo l’importanza delle «cure psicologiche, farmacologiche e dietologiche».
Leggendo questo racconto si coglie tra le righe un messaggio in particolare: la cura trae la sua forza dal senso di dolore della natura; se non ci curiamo di noi, siamo feriti, bruciati, danneggiati. È il principio di identificazione: noi riusciamo a sentire nei nostri corpi il dolore del partner, la trascuratezza del bambino, la ferita dell’amico, ecc. Ma la nostra responsabilità sta nel far sì che la cura non sia solo una questione di sopravvivenza fisica. Non nego l’importanza dei fenomeni biologici, ma la cura deve divenire un fatto psicologico cosciente. La vita biologica deriva dalla sopravvivenza fisica, ma la vita psicologica deriva da ciò di cui ci curiamo.
Da “La cura”, saggio di Pasquale Ionata in “La caduta delle farfalle” di Alessandro Mazzochel (Città Nuova, 2016)