Preghiera al Dio imperfetto
Sottili come aghi, sembrano forare il cielo: sono i campanili gemelli del duomo di Växjö. Questo edificio fatto costruire da san Sigfrido, vescovo inglese considerato l’apostolo della Svezia e suo patrono, risale alla fine del XII secolo, epoca in cui Växjö era già sede di vescovado, anche se soltanto nel 1342 avrebbe acquisito dal re Magnus Erikson lo status di città. Siamo nello Småland, provincia della Svezia meridionale che ha dato i natali a celebrità come il biologo Linneo, la scrittrice Astrid Lindgren e il Premio Nobel Pär Fabian Lagerkvist. E proprio a questo poeta, drammaturgo e narratore, nato a Växjö nel 1891 e morto a Stoccolma nel 1974, mi fa pensare il grido lancinante rivolto al cielo dai campanili gemelli; a lui che ha scritto questo straziante appello: «Dio mio dio, perché ti ho abbandonato? Io non so più vedere le stelle».
Si diceva ateo,Pär Fabian Lagerkvist, eppure «nelle forme dimesse della sua narrativa erompe il fuoco di un “posseduto” da Dio» (Paolo Pegoraro). Era certo del niente che attende l’uomo dopo la morte, e nonostante questo orizzonte tragico continuava a cercare, come uno braccato da uno struggente desiderio di vita, di felicità, di infinito. L’inquietudine era il suo elemento, l’unico possibile per un ribelle senza pace come lui, focalizzato sulla meditazione del male e sul mistero di Dio; l’inquietudine che gli faceva porre al centro di tutta la sua opera le questioni fondamentali dell’uomo: motivo per il quale si vide assegnare nel 1951 il Premio Nobel per la letteratura. Occasione ne furono il dramma e il romanzo Barabba, dedicati al personaggio dell’omicida che fu liberato al posto di Gesù. E in Barabba, appunto, che negava Dio ma desiderava credere in lui, Lagerkvist si identificava. Il successo di Barabba, almeno nel nostro Paese, ha offuscato la conoscenza delle restante produzione, varia e altrettanto valida, tra cui spicca un altro romanzo, Il nano, forse il suo capolavoro. Certo, le opere dello scrittore svedese risentono del trauma causato dagli anni di stenti vissuti prima di raggiungere il successo e dagli orrori della guerra che sempre lo ossessionarono; e tuttavia anche quelle più pessimistiche sono dettate dalla necessità di affermare i valori fondamentali della vita e dal tentativo di colmare il vuoto lasciato da una fede perduta.
Per fare un esempio, tralasciando la produzione narrativa più nota, ecco il Lagerkvist diFate vivere l’uomo, intenso dramma del 1949. Luce sulla scena. Tutti i personaggi sono disposti in semicerchio. Dietro di loro le tenebre. I personaggi sono: Rikard (17 anni, «fucilato perché avevamo un trasmettitore»), Joe (un nero «linciato in Columbia, South Carolina, primavera 1922»), la contessa de la Roche-Montfauçon (mandata alla ghigliottina durante la Rivoluzione francese), un servo della gleba («impiccato per aver rubato una spalla di montone»), una strega (sepolta viva), Giordano Bruno («al rogo per la Verità»), il capo incas («decapitato con tutto il nostro popolo da creature bianche»), Giovanna d’Arco («morta per la Francia»), Paolo Malatesta e Francesca da Rimini («uccisi perché ci siamo amati»), un martire cristiano («sbranato dalle belve»), Gesù, Giuda Iscariota («che si è impiccato») e Socrate («che ha vuotato la coppa di cicuta»). Tutti accusati e a loro volta – tranne Cristo, che non condanna nessuno – accusatori che si presentano, danno la loro testimonianza, esprimono il loro rimpianto. Anche Cristo, che nel raccontare la solitudine e l’amarezza del Padre di fronte alla sua opera e alle «molte cose che non sono andate come avrebbe voluto», prega gli uomini di «non essere così cattivi e crudeli, ma di cercare per quanto possibile di mostrare i vostri lati buoni, che io so che avete. Questo – prosegue – mi aiuterebbe anche a non cominciare a disperare. Non voglio farlo, perché che accadrebbe allora? Io non debbo smettere di sperare, per quanto difficile possa essere. Io sono la luce ch’è venuta al mondo, e debbo tenerlo a mente».
E ancora, mi vengono in mente la straordinaria silloge poetica La terra della sera (1954) e l’abbozzo di narrazione Il dio solitario (primi anni Settanta), entrambi testi nei quali Lagerkvist sembra sempre a un passo da Dio, ora pregato e implorato e, subito dopo, avvertito come un’impossibilità, un vuoto. Un Dio esplorato, si direbbe, in tutte le sue possibili concezioni e figurazioni, con accanimento e una profondità vertiginosa. Come nella commovente “Preghiera al dio imperfetto” che chiude gli appunti del vecchio scrittore: «O Dio, imperfetto tu stesso come me ma in un modo assai più profondo e significativo, guarda me e il mio piccolo destino umano. Rendilo una parte del tuo, una svaniente piccola parte di esso in modo che sia meno duro, più facile per me da sopportare. Insegnami a pensare a te, al tuo destino e a non lamentarmi».