Precariato come unico orizzonte
Due giovani su tre entrano nel mondo del lavoro con un contratto a scadenza. Niente di certo sino a 40 anni. La necessità di un Patto sociale.
Una certezza la conforta: non le manca la materia prima. Chiara Schiaratura è riuscita a realizzare il progetto elaborato durante la stesura della tesi in progettazione e produzione delle arti visive all’università di Venezia, quello di fotografare i primi piani di coetanei che provano a lavorare. Ne è nata una galleria di volti sotto il titolo Ritratti di precari, ognuno dei quali porta sulla pelle un timbro con la data di scadenza, a sottolineare quanto siano a tempo sin troppo determinato le occupazioni che pure i laureati riescono a trovare. Anche lei, nella sua Pesaro, si barcamena tra più ambiti: fotografa, educatrice in una scuola elementare, allenatrice di pallavolo.
Una condizione, purtroppo, ormai generalizzata. Lo sottolinea il sito web studenti.it, che riporta i risultati di un’indagine svolta presso i propri utenti, da cui si ricava che solo il 20 per cento può vantare un contratto a tempo indeterminato, mentre il 22 per cento ha un contratto a scadenza, il 19 lavora a progetto, il 12 è inquadrato come stagista, il 4 con un contratto di consulenza e il 2 con un contratto di formazione; in nero è invece occupato il 22 per cento.
Una stagione davvero ardua, all’insegna di una precarietà crescente e di stipendi in discesa. Racimolare un migliaio di euro al mese è spesso diventata un’impresa impossibile. Sembra lontano un’era geologica l’anno in cui venne pubblicato il vendutissimo libro, emblema di una condizione, Generazione mille euro (Rizzoli), ed invece era solo il 2006. Ne fu tratto anche un film, ma nessuno oggi assegna più a quel titolo un significato negativo: suona, anzi, come il rimando ad un’epoca d’oro, spazzata via dalla crisi economica che da metà 2008 continua a far sentire i suoi morsi.
«La situazione è peggiorata – conferma Alessandro Rimassa, autore del libro –, perché la metà dei nuovi occupati è entrata nel mondo del lavoro con contratti atipici. Così si stanno verificando due fenomeni preoccupanti: si hanno meno diritti e non si ha più idea che si dovrebbero avere dei diritti». Cosa fare? «Consiglio di andare all’estero e rimanerci, in attesa di tornare in un’Italia in condizioni migliori».
Un’emorragia di giovani verso altre nazioni non è proprio quello che serve al nostro Paese. Ma le opportunità nel presente sono davvero risicate. Due ragazzi su tre entrano nel mondo del lavoro con un contratto a scadenza «e rimangono impigliati in una di queste numerosissime tipologie di lavoro a tempo, con scarse protezioni, senza scatti di stipendio, senza prospettive concrete di carriera e spesso sottoutilizzati rispetto alle loro qualifiche», scrivono Marco Iezzi e Tonia Mastrobuoni nel libro appena pubblicato da Laterza con un titolo che dice tutto: Gioventù sprecata. Perché in Italia si fatica a diventare grandi. «Quasi sei lavoratori su dieci – specificano gli autori – sotto i 35 anni hanno un lavoro a tempo o part time, mentre oltre quella soglia d’età la statistica si rovescia, con sette persone su dieci che hanno un’occupazione stabile».
Quaranta contratti
Sono ormai una quarantina i contratti da precari (che non riguardano ovviamente solo i giovani) e rischiano di rendere permanente la condizione di incertezza. Vivamente sconsigliato è dunque porre la domanda: come ti vedi tra cinque anni? Meglio restare nel già angusto presente e non entusiasmarsi per i timidi segnali di ripresa della nostra economia, chiariscono gli analisti.
Gli ultimi dati Istat indicano un tasso di disoccupazione all’8,3, in leggero aumento rispetto ai mesi precedenti. Ma il valore che maggiormente preoccupa – come ha sottolineato il governatore della Banca d’Italia, Draghi – è quello dei giovani senza nemmeno uno straccio di contrattino: 26,4 per cento, dato nettamente al di sopra della media dell’Unione europea. Tra le nuove generazioni, negli ultimi due anni ci sono 216 mila disoccupati in più. Un risultato che rischia di rimpolpare le fila (sono già 800 mila) dei giovani appartenenti alla categoria Neet (Not in education, employment or training), un acronimo inglese che racchiude i ragazzi che non studiano, non sono occupati, non cercano un lavoro, non frequentano corsi di formazione. Sono giovani che hanno rinunciato – speriamo solo momentaneamente – ad impegnarsi per un posto nella vita.
Ma il lavoro ci sarebbe
Eppure, si dirà, abbiamo letto che ci sono imprese a corto di personale. Cercano installatori di infissi e serramenti, panettieri e pastai, marmisti e falegnami, sarti e cuochi e via dicendo sino ad elencare 68 mestieri, come ha fatto presente Confartigianato. Aggiungendo che i candidati che si presentano sono pochi e, tra questi, molti sono inadatti per mancanza di abilità manuale. Manca, come si sa, formazione e informazione. Fa presente l’Istat: «Le difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro sono determinate in parte dalla scarsità dei canali d’informazione e soprattutto dalle inefficienze del sistema pubblico di intermediazione. I Centri per l’impiego e le Agenzie per il lavoro hanno favorito gli ingressi per poco meno del 5 per cento del totale dei giovani». Suona come un necrologio.
Ma il problema è che scontiamo un sistema di istruzione rimasto ingessato, senza seri investimenti nel campo della formazione professionale, a cui si affianca una cultura che relega nella sfera dell’indesiderabile settori lavorativi vitali per l’economia e destinati alla crescita (lavoro manifatturiero, agricolo, pesca, autotrasporto, servizi alberghieri e alla persona). Una cultura che sembra proprio da rifondare: tiene in gran conto, ad esempio, le facoltà giuridiche, anche se solo il 24 per cento dei laureati ha trovato lavoro dopo tre anni dalla laurea, e la sola Milano conta 20.300 avvocati, quasi metà di quanti ce ne sono in tutta la Francia (47 mila).
Patto sociale
In questo momento congiunturale il ministro del Lavoro Sacconi ha varato il 22 ottobre il sito web Cliclavoro per favorire l’incontro tra aziende che offrono impieghi e cittadini che li cercano, oltre a mettere a disposizione informazioni, ricerche, banche dati. Di maggiore rilievo l’accordo siglato il 27 ottobre tra lo stesso Sacconi, le Regioni e i sindacati per rilanciare il contratto di apprendistato, che aveva riguardato nel 2009 567 mila giovani sino a 29 anni. «La misura offre la possibilità di un ingresso formativo al lavoro che può portare a una stabilità alternativa a forme di lavoro precarie», hanno dichiarato i sindacati.
Buon segno, allora. Ma per dare sicurezza e futuro a giovani e adulti precari non bastano singoli accordi e provvedimenti tampone. Ci sono diritti negati, la cui tutela può poggiare solo su un Patto sociale tra tutte le componenti interessate alla ripresa economica e al bene comune. Il turbo-capitalismo, quello del primato assoluto del profitto, ha fatto saltare la centralità del lavoro, il sistema di protezione e le forme di rappresentanza sociale. A questo s’è aggiunto in Italia un livello delle retribuzioni tra i più bassi d’Europa e forme di disparità tra lavoratori.
Il 7 ottobre è stata celebrata la Giornata internazionale del lavoro dignitoso, cioè «svolto in condizioni di libertà, sicurezza, dignità ed uguaglianza, con adeguata retribuzione e protezione sociale», recitano le convenzioni internazionali. Non c’è tempo da perdere per il nostro Paese.
Paolo Lòriga
In cerca di tutele e rappresentanza
di Carlo Cefaloni
«Ma dove siete stati in tutti questi anni?». Con questa provocazione vengono accolti i vari appelli che si levano in difesa della dignità del lavoro. «Non vi siete accorti che c’è un’intera generazione che è cresciuta senza conoscere cassa integrazione, sussidio di disoccupazione, diritto di sciopero?». La critica è rivolta ai sindacati da uno storico esponente del pensiero operaista come Sergio Bologna che ha ora individuato una nuova categoria senza diritti e tutele: i “lavoratori autonomi di seconda generazione” che, non iscritti ad un ordine professionale, svolgono attività diffuse «nel settore dei servizi alle imprese e alla persona, nella subfornitura e nell’esternalizzazione di certi servizi pubblici». Sono, cioè, «autonomi per finta» come i microimprenditori che svolgono, di fatto, un’attività subordinata nei confronti di un solo cliente che potrebbe, tuttavia, cambiare sempre fornitore. Anche i tanti coordinamenti di lavoratori precari esprimono diffidenza nei confronti dei sindacati perché considerati troppo arrendevoli.
Di arretratezza del sindacato tradizionale parlano, da tempo, numerosi esperti ed anche esponenti dell’attuale maggioranza di governo, come il ministro Renato Brunetta che, già nel 2007, aveva curato un dossier da cui emergeva che i rappresentanti dei lavoratori risultavano impegnati nella difesa dei dipendenti tutelati dal lavoro a tempo indeterminato. Mentre i giovani «non ragionano più secondo il parametro del “posto di lavoro” fisso ma secondo quello del “rapporto di lavoro” flessibile e plurimo», così, «specie tra i lavoratori atipici, prevale l’individualizzazione e la propensione a contare sulle proprie forze nei rapporti contrattuali». Sarebbe inutile, quindi, difendere regole non più applicabili nel nuovo modo di produrre e puntare invece ad agevolare la crescita delle competenze personali per facilitare l’entrata e l’uscita dal rapporto di lavoro.
Modello scandinavo
L’esigenza di accettare in maniera aperta la sfida della globalizzazione si trova anche nella proposta di adottare il “modello sociale scandinavo” dove un terzo della popolazione cambia lavoro ogni anno ma esiste una robusta ed efficiente rete di sicurezza in caso di disoccupazione oltre ad un programma di formazione professionale continua. Visto con favore da molti nel centrosinistra italiano, deve fare i conti con un impegno di spesa, nelle politiche attive del lavoro, che in Danimarca raggiunge il 4,5 per cento del Pil contro l’1,4 per cento dell’Italia: l’adeguamento vorrebbe dire passare da 21 a 67 miliardi di euro di spesa.
Misura proibitiva per le nostre finanze e che non risolverebbe il problema centrale, secondo il decano italiano dei sociologi del lavoro, Luciano Gallino: quello di aver permesso, con l’introduzione delle varie forme di flessibilità, di separare la persona dalla propria attività lavorativa ridotta così a “merce”. Con un costo umano e sociale insostenibile a motivo di una vita diventata precaria. E non solo per i giovani alle prime esperienze. Bisognerebbe, secondo Gallino, agire sull’organizzazione internazionale del lavoro per imporre clausole di “lavoro decente” e ostacolare quel gigantesco trasferimento di ricchezza che sta avvenendo verso le “imprese irresponsabili” grazie alla flessibilità utilizzata come alibi.
Emergono, quindi, analisi, soluzioni e prospettive, molto diverse tra di loro, che si affronteranno nel dibattito che seguirà la presentazione di quel nuovo “Statuto dei lavori” che, nelle dichiarazioni di Michele Tiraboschi, principale collaboratore del ministro del Lavoro Sacconi, dovrà «estendere le tutele a quanti risultano esclusi ed emarginati».
Soluzioni possibili
Negli ultimi anni anche Cgil, Cisl e Uil hanno avviato dipartimenti dedicati alle nuove figure professionali. Secondo le stime della Nidil Cgil, prima della crisi, si avevano in Italia 4 milioni di lavoratori atipici e altrettanti interessati a fenomeni di lavoro nero. D’altra parte è anche difficile fare affidamento all’azione degli ispettori del lavoro. Nella città di Roma, riferisce la Nidil, sono in forza solo 11 ispettori senza grandi risorse. A cominciare dalla benzina per le macchine di servizio.
Questo disagio diffuso muove, da più parti, verso soluzioni condivise sulla valorizzazione della persona come fattore principale per vincere la crisi. Così sarà da verificare la portata del recente accordo sull’apprendistato di qualità, siglato da tutte le parti sociali, con l’intenzione di contrastare la diffusione di falsi tirocini e collaborazioni.
Soluzioni che partono da una visione d’assieme come quella espressa, durante un seminario della Cisl, da Guy Ryder, segretario della Confederazione internazionale dei sindacati: un sistema economico non può funzionare in deficit di fiducia e responsabilità.
Carlo Cefaloni