Povera Butterfly!

Al Teatro dell'Opera di Roma, uno spettacolo accattivante con Daniela Dessì nelle vesti della protagonista e con Pinchas Steinberg a dirigere l'orchestra
Madama Butterfly

Per lui, Pinkerton, capitano di marina, è un’avventura come tante altre. Forse più stuzzicante, visto che si tratta di una ragazzina giapponese. Ma per lei, Cio-Cio-San è il primo vero amore: lei ci crede davvero. E va contro tutti, perché le interessa l’amore, “un amore piccolino”, come è il suo cuore.
 
Ma l’idillio (per lei) e l’avventura (per lui) si colorano di tragedia. Sta proprio in questo sottilissimo diaframma tra elegia e disperazione, tra contemplazione delle piccole cose fiorite – con un gusto “simbolista” che sarebbe piaciuto al Pascoli – e dolore inesorabile che si consuma la tragedia domestica di Madama Butterfly. Un Puccini orientalista, anche in certi ritmi e suggestioni armoniche, ma che fondamentalmente resta sé stesso: un poeta di affetti teneri e passeggeri, sensuali anche – il duetto d’amore (di vaga ascendenza verdiana e wagneriana, da Otello a Tristano) –, di temi musicali ricorrenti come “segni” dello svolgimento narrativo  e psicologico, stupendamente variati dall’orchestrazione. Che è raffinata e “moderna” (per l’epoca italiana).
 
Cosa dice oggi la Butterfly, a chi oltrepassa le pur belle melodie de “Un bel dì vedremo”, “Bimba dagli occhi pieni di malìa” e dal coro “a bocca chiusa”, delicato notturno di una favola cattiva? Brani che hanno decretato un successo ormai da un secolo. Butterfly rimane il simbolo dello sfruttamento femminile da parte del colonialismo bianco, occorre pur dirlo. Ed è una tragedia.
 
Al romano Teatro dell’Opera, Daniela Dessì, interprete di razza, l’ha colto e reso con personale coinvolgimento recitativo e vocale, con i suoi mezzi validi: potenza di dizione, volume, fraseggio sottile, dolore vero. Non era alla sua altezza il pur promettente Alexey Dolgov, un Pinkerton che dovrebbe studiare ancora per apprendere a “manovrare” con efficacia le sue notevoli capacità.
 
Armoniosa, chiara la regia di Giorgio Ferrara su registri di colori e scene (di Gianni Quaranta) lineari e lucenti, mentre sul podio un esperto come Pinchas Steinberg otteneva dall’orchestra in piena forma risultati di impeti e delicatezze eccellenti. Peccato che “la buca” talora tendesse a “coprire” le voci. Spettacolo accattivante, grazie a una direzione attenta e a una primadonna padrona delle scene come poche altre.

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