Potenziali bombe sociali

L’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità crea forti malesseri nelle popolazioni tunisina e algerina. Violenze e manifestazioni. La minaccia dell’allargamento della protesta
Proteste in algeria

Sono fatalmente arrivati i primi morti per la repressione delle proteste popolari che stanno colpendo una buona fetta del Maghreb, in particolare Algeria e Tunisia. La protesta è stata scatenata dall’aumento di alcuni prezzi di base, pane in particolare, dovuti ai livelli elevati dei corsi internazionali, a fronte di una perdita di potere d’acquisto progressivamente incattivitasi negli ultimi anni. E ciò per la contemporanea presenza nelle economie maghrebine di una forte inflazione che sfiora il dieci per cento annuo, mentre i salari rimangono allo stesso livello del 2005. Se poi si considera che la disoccupazione giovanile reale si situa a livelli del trenta-quaranta per cento (in particolare elevatissima è quella dei diplomati e laureati), sapendo che tre abitanti su quattro hanno meno di trent’anni, ecco che il mix apparirà chiaro nelle sue potenzialità esplosive.

 

Questi dati, relativi all’Algeria, sono in realtà assai simili a quelli della Tunisia, anche se i contesti politici e sociali sono relativamente diversi. Se Ben Ali governa la Tunisia dal 1987, dopo un colpo di Stato incruento o quasi, il suo collega Bouteflika è a capo dell’Algeria dal 1999, dopo un’elezione plebiscitaria vinta anche grazie al sospetto ritiro degli altri candidati. Entrambi i governi sono “forti”, nel senso che non hanno una base popolare verificata e verificabile, e governano in un modo deciso, che lascia spazio alla corruzione e al clientelismo. Inoltre, se la Tunisia vive da trent’anni in un clima di relativa calma sociale e politica, l’Algeria sta ancora leccandosi le piaghe del “decennio del terrorismo” che ha fatto più di cento mila morti, nei fatti una vera e propria guerra civile; stagione di violenza cresciuta per giunta sulla memoria tuttora viva della “guerra di liberazione” dai francesi.

 

Autorevoli osservatori paventano un risveglio delle istanze più radicali e violente presenti nelle rispettive società, anche se da questo punto di vista l’Algeria appare molto più esposta della Tunisia. Ciò può essere vero, anche se va detto che il carattere delle attuali proteste appare essenzialmente popolare: la gente non ce la fa più ad andare avanti. E quando nelle famiglie non c’è abbastanza per vivere, ecco che la protesta, anche violenta, sorge spontanea, anche se certamente rinfocolata da chi soffia sul fuoco con argomenti più politici o religiosi.

 

Come uscirne? Certamente l’Algeria ha più risorse naturali rispetto alla Tunisia che, in compenso, gode della grande risorsa del turismo, che il vicino non ha sviluppato, se non in minima parte. Dal punto di vista interno, certamente queste due sono le leve economiche su cui i rispettivi governi possono ancora agire per risollevare le sorti dell’economia e modernizzare il Paese. Ma, probabilmente, i due Paesi dovranno anche trovare delle autonome vie di “condivisione del potere”, adatte alle loro società. Una loro via alla democrazia? Certo, ma stando attenti a non identificare le sole forme di democrazia accettabili e possibili con quelle dei nostri Paesi occidentali.

 

Sta qui il nocciolo della questione dei rapporti dell’Europa con il mondo musulmano maghrebino, e più in generale del mondo mediterraneo-europeo con quello mediterraneo-africano: bisogna favorire questa maggiore “condivisione del potere” non con la forza, né militare né economica, ma nel rispetto delle prerogative dei singoli Paesi e nelle singole culture. Ciò potrebbe avere benefici riflessi anche economici per tutti. E ciò evitando innanzitutto di “condizionare” con strumenti economici e politici lo sviluppo politico dei singoli Paesi. Un’opera difficile da attuare ma necessaria. Finora nella regione gli europei hanno appoggiato “regimi familiari” (Bouteflika, Ben Ali e anche Moubarak in Egitto e la dinastia degli Hassan in Marocco) sostanzialmente in cambio di un moderato filo-occidentalismo. Il regime di Gheddafi è un discorso a parte, anche se in questi ultimi tempi è mutato anch’esso nella direzione di un filo-occidentalismo d’interesse.

 

È la scelta giusta quella di continuare ad appoggiare le “famiglie” al potere? Saprà garantire non tanto l’afflusso di risorse energetiche all’Europa quanto il consolidamento della coesione sociale in quei Paesi, bene prezioso per tutto il Mediterraneo? Il dubbio è più che legittimo. Serve creatività diplomatica e un’opera di dialogo interculturale e interreligioso di ampio respiro, sia in Africa settentrionale che tra gli immigrati di quei Paesi che vivono tra noi.

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