Post-referendum. Voglia di autonomia o rischio di chiusura?

Considerazioni a seguito del risultato referendario sulle autonomie regionali

Lavoro da qualche mese in un centro di accoglienza per famiglie migranti e ragazze madri. Queste giornate sono state segnate da momenti molto difficili: nella struttura dove lavoro in tre giorni 9 persone sono andate via: scappate, sparite. Da ultimo un ragazzo di 14 anni senza genitori una mattina non è più rientrato: denunce, questura, prefettura, carabinieri, sconforto comune tra noi operatori…

Con alcuni di loro c’era un bel rapporto: pian piano mi raccontavano i loro drammi, il viaggio per arrivare in Libia, percepivo un po’ quanto possono aver passato: violenze, torture, soprusi… poi improvvisamente via, scomparsi senza niente, neanche il permesso di soggiorno: da un dramma all’altro!

Con tutto questo ho visto i titoli dei giornali post-referendum, le parole dei vincitori: adesso vogliamo, vogliamo, vogliamo, come una pretesa vista la larga misura del risultato.

Non ho sentito parole come: adesso diamo, creiamo sinergie, condividiamo risorse, progettualità, lavoriamo insieme alle altre regioni per un bene comune verso tutto il Paese. Ma soprattutto non ho sentito accogliamo meglio, diamo dignità, almeno a questi richiedenti asilo.

Nulla! Come se la civiltà fosse segnata solo nel far bella la propria casa regionale senza guardare alle necessità del comune, provincia, regione vicina e a chi chiede di essere ospitato.

recinto, barriera

Quando ci sono questi momenti di espressione democratica, mi chiedo se questo serve ad unire o a dividere il Paese. Non so rispondere ancora, ma vedo che pochi hanno colto l’opportunità che poteva dare questo referendum e tanti la strumentalizzazione che si poteva seguire.

 

 

Non mi dice niente una politica che guarda solo al proprio orticello anziché guardare insieme al bene comune.

Certi problemi vanno affrontati insieme: l’inquinamento atmosferico della val padana, per esempio, si risolverà solo quando tutte le regioni si siederanno attorno ad un tavolo per definire un progetto comune: questo è fare la Storia. E poi l’immigrazione: perché tante amministrazioni sono contrarie, si permette di metterli tutti insieme uomini, donne, bambini, famiglie, ragazze madri, tutti ammassati in delle caserme. Non è per me una politica quella che esclude gli ultimi dai propri progetti e non sa aprire il proprio cuore. Sì, perché solo chi apre il cuore sa essere artefice della vera politica, espressione più alta della carità.

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