Porti, merci e strategie globali
I porti rivestono una grande importanza in Italia costituita da una grande penisola e due grandi isole nel Mediterraneo. Non meraviglia perciò che tra le prime risorse europee assegnate, ad agosto, per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza troviamo ben «3,4 miliardi di euro per l’ammodernamento e l’efficientamento dei porti».
Le strategie legate al traffico delle merci, al trasporto intermodale e cioè al trasbordo tra navi e sistema ferroviario o stradale, rappresentano una parte della competizione in corso tra la supremazia statunitense e quella cinese. Anche perché ormai sul lungo raggio quasi la totalità delle merci si muovono via mare.
Come afferma da Trieste, Zeno D’Agostino, presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico Orientale, ai porti «vengono sempre più spesso associati importanti aspetti geopolitici». Secondo D’Agostino, ad esempio, l’orientamento prevalente negli ultimi 15 anni dell’Europa comunitaria verso Est, «in un’ottica, quasi solo paramilitare in rapporto a potenziali conflitti, in primis con la Russia», ha impedito di sviluppare le relazioni con il Sud del Mediterraneo, perdendo «una grande opportunità, soprattutto nei confronti della Cina che, viceversa, investe tantissimo in Africa».
A partire da queste premesse abbiamo fatto alcune domande a Carlo Tombola per avere il suo punto di vista quale referente di “The Weapon Watch” (Osservatorio sulle armi nei porti europei e del Mediterraneo).
Come mai sono così importanti i porti marittimi in un mondo globalizzato contrassegnato dalla velocità del trasporto aereo?
Bisogna fare un salto indietro di oltre mezzo secolo, con la “rivoluzione logistica”, basata sul container, che ha enormemente intensificato il movimento delle merci. È aumentata moltissimo la distanza media percorsa da ogni unità di carico e si è perfezionata l’integrazione tra le diverse modalità di trasporto (marittima, aerea, su ferro, su gomma).
Con quali conseguenze concrete?
Innanzitutto la straordinaria riduzione dell’incidenza del trasporto nel costo finale delle merci. Ciò ha comportato che in quasi tutti i rami merceologici si è definitivamente rotto il legame tra geografia della produzione e aree di consumo (delocalizzazione) fino a consentire l’affermazione della lean production, cioè la produzione senza magazzino del “modello Toyota”.
E quali sono stati gli effetti sul lavoro?
Il lavoro è diventato un fattore meno importante e più flessibile. Prima di tale innovazione la produzione industriale di massa avveniva alle porte delle grandi città, concentrando migliaia di operai in una sola fabbrica dove si compiva tutto il ciclo produttivo, dalla materia prima al prodotto finale. Ora si fa in piccole officine automatizzate che realizzano semilavorati e componenti, poi assemblati in altri impianti a 30-40 giorni di distanza via mare.
Cosa comporta questa nuova centralità del trasporto marittimo?
Significa che la circolazione marittima delle merci ha rafforzato il ruolo essenziale che già aveva conquistato sin dall’epoca delle scoperte geografiche moderne. Solo che ora non è più limitato alle merci di basso valore unitario (le cosiddette ‘rinfuse’) o ‘coloniali’, ma è capace di condizionare anche il funzionamento di mercati e di cicli industriali ad alto valore aggiunto. Un chiaro esempio lo abbiamo avuto con le perturbazioni del mercato dei noli marittimi in seguito alla pandemia o con le carenze di semilavorati causate all’incidente della “Ever Given” nel Canale di Suez. Il trasporto aereo, a causa delle caratteristiche tecniche e dei costi elevati, è invece rimasto confinato solo in alcune nicchie di mercato dove sono decisivi i tempi di consegna
Quanto è importante la interconnessione tra navi e rete ferroviaria?
Simbolo della prima rivoluzione industriale, le ferrovie hanno conosciuto uno sviluppo assai differenziato a seconda delle aree geografiche: molto capillare in Europa e Nordamerica, limitato o del tutto assente negli altri continenti.
L’interconnessione modale con le ferrovie, quindi, dipende innanzi tutto dall’esistenza di una rete e dalla sua efficienza. Anche all’interno della stessa Unione Europea l’efficienza del trasporto merci ferroviario presenta forti differenze, mentre il trasporto persone su treno – favorito dalla vicinanza e densità dell’insediamento urbano – può competere con quello aereo sulle medie e brevi distanze. Occorre comunque tener presente che, tenendo conto anche dei costi d’impianto e d’esercizio, il trasporto su ferro è decisamente più costoso rispetto alle altre modalità.
Quali sono i porti italiani più importanti a livello strategico?
L’importanza strategica di un porto dipende più dal contesto geo-economico di riferimento che dal suo profilo commerciale o tecnico-marittimo. Se cerchiamo i porti con funzione di gateway (cioè in grado di garantire un trasferimento veloce e efficiente dei container dalla nave con l’entroterra, ndr), per le aree chiave dell’economia italiana, Genova è certo strategica per l’entroterra padano occidentale e per una parte della Svizzera, come dimostra il suo primato nel traffico di merci varie (container + rotabili). Trieste è il principale porto adriatico al servizio della regione padana orientale, aperto anche agli scambi nell’area austro-slovena ma insidiato dalla prossimità del porto di Venezia-Marghera.
Se, invece, guardiamo ad altri aspetti, ad esempio alla sicurezza degli approvvigionamenti energetici o all’inserimento nelle correnti di traffico globali o alla funzione militare, sono altri i porti italiani strategici. I maggiori porti petrolchimici sono Trieste, Augusta e Cagliari-Sarroch, con un ruolo forte anche per Genova-Savona. Gioia Tauro sfrutta la posizione geografica come principale terminal di trasbordo (transhipment) globale. La Spezia è il meglio attrezzato porto militare, anche per retroterra industriale dedicato
Esiste un solido legame tra i lavoratori dei diversi porti europei o la competitiva tra i vari siti rischia di metterli l’uno contro l’altro?
Bisogna dire che il legame tra lavoratori lo crea la contiguità quotidiana sul luogo di lavoro. Per poter, invece, arrivare alla solidarietà nella condizione lavorativa è necessaria un’analisi di questa condizione che vada oltre il locale.
Cosa altro ostacola questo rapporto tra i lavoratori dei diversi porti?
Di sicuro la rinascita di tensioni nazional- identitarie e la forza del ricatto occupazionale. I tradizionali legami di solidarietà internazionalista dell’ambiente dei lavoratori portuali (comunemente definiti dockers traducibile in “scaricatori”, ndr) si sono molto affievoliti, ma si possono ricostruire sul piano dell’esperienza culturale “organizzata” e comune. Più insidiosa è, invece, la frattura inter-sindacale che si è creata in Italia, molto evidente nei conflitti incorso nel settore della logistica in corso.
Risalta ancora di più quindi l’azione dei portuali genovesi e di altri porti europei che hanno fermato il traffico di armi destinati ai Paesi in guerra. Anche se adesso i lavoratori del Collettivo Calp di Genova sono sotto inchiesta della magistratura. A che punto stiamo?
Diciamo che, come in tutto il Paese, è molto difficile far emergere a livello pubblico i tanti problemi e le contraddizioni che lo attraversano. L’attivismo dei portuali Calp ha toccato interessi in grado di far pressioni sulle autorità con accuse che mirano a colpire i lavoratori che si sono più esposti. Tuttavia la rete della solidarietà attorno al caso si è estesa sia dal lato sindacal-portuale che da quello del movimento contro la guerra. Una rete che stiamo cercando di allargare fuori dei confini nazionali.