Portare l’unità nel mondo della formazione
Di fronte alla sfida della formazione alla vita consacrata, quanto mai attuale in questi ultimi tempi, quale può essere il contributo della spiritualità dell’unità? Un formatore vive il suo impegno alla luce del carisma di Chiara Lubich.
Quest’anno celebro il ventesimo anniversario del mio sacerdozio e il venticinquesimo di vita religiosa. Guardando alla mia formazione religiosa, sento di ringraziare Dio perché, fin dal seminario minore, sono stato educato alla spiritualità dell’unità, frutto del carisma di Chiara Lubich.
Frequentavo il secondo liceo, quando il mio rettore, un sacerdote che condivideva questa spiritualità, mi invitò a un incontro internazionale, organizzato dal Movimento dei Focolari, che si sarebbe svolto a Rocca di Papa (Roma). La cosa che mi colpì moltissimo fu ascoltare alcuni giovani che raccontavano come si erano impegnati a vivere il Vangelo e come questo si concretizzava nell’attenzione agli altri, in particolare a chi si trovava in situazioni disagiate.
Tornai in seminario convinto che il Vangelo non solo andava studiato e meditato, ma vissuto. Individuai subito che la radice di tutto era l’Amore di Dio. Perciò, se vivevo in questo Amore, vivevo il Vangelo. Da questo primo contatto con il carisma dell’unità di Chiara, nella mia vita iniziò una piccola rivoluzione.
Con i seminaristi
Avevo sedici anni quando il rettore mi nominò responsabile dei seminaristi delle scuole medie. Stando con loro mi sforzavo di amarli concretamente. Al mattino, per esempio, dopo la sveglia, li aiutavo a rifare in fretta i letti, così potevano arrivare puntuali alla preghiera; nel pomeriggio, quando dovevano studiare, mi mettevo a disposizione per aiutarli nei compiti.
Anche con i miei compagni di classe del liceo sacrificavo del tempo per studiare con loro, specialmente se si trattava di matematica, una materia a me congeniale. Oppure, prestavo qualche mio testo di scuola a chi non l’aveva comperato, con il rischio, tra l’altro, di arrivare impreparato, se il giorno dopo il professore mi avesse interrogato.
Quel periodo fu per me pieno di luce, di gioia di vivere e di generosità, tempo in cui ho sperimentato che non c’era nessuna distinzione tra lunedì e sabato, perché avevo l’impressione, vivendo così, che ogni giorno era una festa.
In missione a Napoli
Divenuto sacerdote tra i Missionari Oblati di Maria Immacolata, i superiori mi inviarono a Napoli per inserirmi in un’équipe, incaricata della pastorale giovanile in un vasto territorio, del quale una parte venne affidata a me.
All’inizio fu un’esperienza dura. Avevo da poco completato gli studi in teologia biblica: ero pieno di nozioni intellettuali, ma con pochissima esperienza. Non sapevo come conciliare il mio bagaglio culturale con le aspettative dei ragazzi che incontravo. I primi mesi di ministero furono vissuti veramente nella fede e nella speranza che questo gruppetto, incontrato settimanalmente, non si dissolvesse come una bolla di sapone.
Per me è stato fondamentale il fatto che non ero da solo; coglievo tutta l’importanza di essere parte viva di questa équipe pastorale. Ci incontravamo regolarmente, motivati dallo stesso spirito di unità, e insieme individuavamo le linee guida del cammino formativo dei giovani. Il nostro ‘incontrarci’ non era solo finalizzato ad una maggior efficacia nell’azione, ma sperimentavamo che, per l’amore scambievole che ci univa, potevamo godere della luce della presenza del Signore risorto, come aveva promesso Gesù nel Vangelo: “… dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18, 20).
Pian piano, nella zona che seguivo la realtà giovanile andava crescendo e nacquero gruppi con giovani di età diversa e con un cammino differenziato. Cominciò anche a stagliarsi tra tutti un gruppo particolare, che era un po’ come il cuore di tutta la realtà: erano giovani che condividevano la stessa passione per il Signore e per i loro coetanei.
Era quello il luogo dove, a livello zonale, tutto nasceva e tutto veniva verificato; un luogo dove, prima del fare, l’attenzione era posta sulla qualità dei rapporti tra di noi, fatti di ascolto e di accoglienza reciproca. Eravamo convinti che la missione non potevamo portarla avanti noi, ma Gesù tra noi: era Lui il vero missionario, capace di toccare i cuori di chi lo avrebbe incontrato attraverso di noi.
Nella casa di formazione
Dopo otto anni, il provinciale mi chiese di spostarmi nella nostra casa di formazione di Marino, vicino Roma, dove mi misi con animo libero a disposizione del nuovo servizio nell’ambito della formazione, prima come responsabile del centro giovanile e poi come maestro dei novizi. La comunità in cui sono inserito ha l’obiettivo di costruire tra tutti, formatori e formandi, un clima di famiglia. Del resto, questa realtà è molto cara al nostro fondatore, sant’Eugenio de Mazenod, il quale prima di morire ci ha lasciato nel suo testamento spirituale queste parole: “tra voi la carità, la carità, la carità e fuori lo zelo per la salvezza delle anime”.
Questo desiderio del fondatore mi sembra particolarmente in sintonia con quanto afferma Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Vita consecrata: “Nella vita di comunità, poi, deve farsi in qualche modo tangibile che la comunione fraterna, prima d’essere strumento per una determinata missione, è spazio teologale in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore risorto (cf. Mt 18, 20)” (42).
Nonostante la nostra fragilità sperimentiamo che è la presenza di Gesù fra noi che aiuta i giovani in formazione a crescere e a maturare nella loro vocazione.
Cerchiamo di coltivare questa comunione attraverso alcuni strumenti: la stesura in comune del progetto formativo e pastorale annuale, il confronto periodico sugli orientamenti decisi, la condivisione dei passi d’anima del nostro cammino spirituale e di quanto Dio ha operato in noi.
Di tanto in tanto ci incontriamo poi per il “momento della verità”, nel quale ciascuno dice dell’altro prima qualcosa di negativo e poi qualcosa di positivo. Non è semplice, ma sperimentiamo che, vivendolo nella carità, contribuisce grandemente a rinforzare quei rapporti fraterni che sono poi alla base del nostro vivere insieme.
La Scuola Intercongregazionale
Viviamo in una zona, quella dei Castelli Romani, dove ci sono tante case di noviziato, sia maschili che femminili. Da quasi vent’anni esiste una Scuola Intercongregazionale, con sede a Marino, cui partecipano una ventina di istituti. È per tutti noi una bella esperienza di collaborazione e di comunione tra carismi, che risponde pienamente alla preghiera rivolta da Gesù al Padre: “che tutti siano uno” (cf. Gv 17, 21).
I consacrati e le consacrate, dovrebbero essere “esperti di comunione” (VFC 10). Perciò, anch’io spendo volentieri tempo ed energie per offrire un contributo a questa scuola e per farla diventare per i partecipanti un vero laboratorio di comunione.
Molti, specialmente i maestri e le maestre di noviziato, avvertono infatti questa esigenza e in questa direzione si sono fatti dei passi in avanti significativi. Siamo passati, ad esempio, da una gestione che ruotava attorno a un’unica persona, a una gestione più compartecipata. Grazie alla disponibilità delle maestre e dei maestri, sono nate delle équipes: una per il coordinamento del piano di studi, un’altra per l’organizzazione dei convegni, una terza s’interessa dei ritiri di avvento e quaresima. Altri ancora seguono tutta la parte economica.
Cuore o motore di questa esperienza è il gruppo delle maestre e dei maestri di noviziato. Insieme verifichiamo periodicamente tutto ciò che avviene e individuiamo i passi ulteriori da fare: la revisione del piano di studi, l’individuazione delle aree di approfondimento più utili, l’analisi della realtà scolastica dell’anno…
Il gruppo, però, non è solo funzionale alla gestione concreta della scuola, ma è anche il luogo dove si fa l’esperienza del crescere insieme nella fede, attraverso lo scambio e il confronto su temi che riguardano le proprie responsabilità di formatori davanti a Dio. L’obiettivo della scuola s’allarga, così, fino a raggiungere una comunione spirituale concreta, pur rimanendo nell’ottica della formazione. I risultati arrivano e li costatiamo in particolare quando alla fine dell’anno le novizie e i novizi, interpellati esplicitamente sull’andamento scolastico ci esprimono il loro apprezzamento per i contenuti sapienziali e soprattutto per il respiro universale ed ecclesiale della scuola.
Sento che il rischio dell’individualismo è accovacciato anche alla mia porta. L’esperienza di tutti questi anni, però, mi fa dire che vale la pena spendersi per l’unità e per dar vita a Gesù tra noi; è richiesta come condizione la dinamica pasquale: saper morire per amore per veder sbocciare qualcosa di cui si percepisce più limpido il sapore di Cielo.