“Portare la vita”. Grande, prof, è questo che serve al mondo!

Una raccolta di testimonianze e pensieri, di giovani e di loro educatori, sulle domande più profonde che abitano l’animo dei giovani.

Devo confessare che quando m’imbatto con riflessioni, statistiche, giudizi sulla condizione giovanile odierna, provo una sorta di disagio poiché, stando con i giovani, riscontro istanze, desideri, domande ben più profonde di quello che le statistiche rivelano. Quest’anno, con alcuni colleghi che insegnano nella scuola secondaria, ho potuto toccare con mano che oggi, più di ieri, occorrono più testimoni che maestri: lo smarrimento e la solitudine che i giovani vivono sono la conseguenza di un vuoto educativo, di una crisi culturale ed economica che li ha penalizzati togliendo loro, quando non hanno più la forza di lottare, la volontà di vivere ed impegnarsi per qualcosa per cui valga la pena vivere. Anche nei confronti della fede colgo atteggiamenti differenti. Di fronte alla domanda su Dio, su Gesù, sulla Chiesa, da una parte si riscontra nei giovani che incontro, quando non c’è indifferenza o apatia, il desiderio di credere, di affidarsi a Qualcuno, dall’altra il rifiuto di ciò che non è spiegabile dalla ragione e soprattutto di tutto ciò che è istituzione: Gesù sì (quando è riconosciuto), Chiesa no.

Prendere la vita sul serio
Eppure, se ci si mette in un atteggiamento di profondo ascolto, dietro le critiche, le reazioni a volte dure dei ragazzi, si colgono le vere domande che diventano l’input di un percorso culturale, umano e che, per qualcuno, sfocia in un cammino di fede. Riportando alcune riflessioni dei giovani che incontro quotidianamente e di colleghi di IRC con cui ho iniziato un bellissimo e amichevole confronto, vorrei comunicare questa “vita” che emerge nell’esperienza a scuola.
Quest’anno ci siamo ritrovati più volte a riflettere e condividere la nostra esperienza. Ecco alcune risonanze:  “L’esperienza dell’uomo odierno è quella della provvisorietà, anche nel bene e nel bello. Continuamente sospeso e avvolto in uno stato di ricerca e d’insoddisfazione, spesso l’uomo perde di vista non solo il fine del proprio camminare, ma anche la speranza di poter arrivare ad una meta capace di soddisfare la propria sete di bene e di bello. I nostri ragazzi spesso incontrano un modello di uomo orfano di bene, di bello, di senso buono della vita. Nonostante questo, perché nei cuori dei ragazzi questo afflato al bello e al buono si propone sempre nuovo? Perché l’uomo è ontologicamente ‘capace di Dio’, tanto da sentirne nel cuore una nostalgia, spesso indefinita e sofferente” (Don Luca).
“Domande come queste possono sembrare inutili, perché ci poniamo domande alle quali non sappiamo rispondere? Perché dobbiamo rovinarci la tranquillità di vivere? Però mi affascina provare a rispondere o a cercare risposte, anche se so che ciò mi inquieterà un po’, perché vuol dire prendere la vita un po’ più sul serio e non rimanere tranquilli…”( Daniel – III anno).
“…Personalmente non posso fare da ‘vecchio saggio’ perché di errori ne ho commessi tanti, continuo a farne e sicuramente ne commetterò ancora, ma posso dire di aver capito una cosa: che i luoghi per i quali passiamo forse sono più importanti di quelli in cui alla fine arriveremo, che il modo in cui facciamo le cose talvolta è più importante delle cose stesse e quanto sono importanti le persone che incontriamo, che ci cambiano, e soprattutto quelle che decidono di accompagnarci” (Gabriele – II anno).
“Io non credo molto nella felicità, forse a causa di tutte le cose che mi sono successe e che mi hanno portato a pensare che il concetto di felicità sia solo un’utopia e che l’uomo crede di raggiungere la felicità, o meglio, la stabilità interiore, quando è stanco di andare controcorrente, smette di cercare e si accontenta (…). In qualche modo sono anch’io in cammino nonostante la mia vita travagliata. Io so cosa vuol dire essere soli e ritrovarsi a piangere in una stanza, per il male che ti hanno fatto, pensando che tutto si risolverà. Nella mia vita però alcune volte credo di aver assaporato la felicità, anche se poi si è dissolta come un sogno. Ma io continuo a cercare, certo che c’è una ragione alla mia vita… affidandomi a Qualcuno che mi aspetta continuo a camminare” (Sandro – III anno).

Il patto educativo
E quando si affronta il tema della Morale? “Come sembra difficoltoso parlare di ‘Non rubare’ davanti a una realtà politica poco testimoniale e immersi in una oggettiva e umiliante indigenza; come sembra paradossale parlare di ‘Onora il padre e la madre’ laddove il proprio nucleo familiare è nido di violenza; quanto sembra ingenuo dire ‘non dire falsa testimonianza’ dove la verità sembra essere un optional soggettivo e la menzogna uno dei pochi strumenti di sopravvivenza…
Tuttavia gli sguardi dei ragazzi, apparentemente spavaldi, in realtà contaminati da paure e smarrimento, mi fanno pensare a quel buio che tanto terrorizzava i passi notturni del mio essere bimbo… e bastava una semplice lucetta notturna posta nel corridoio dalla mia mamma a diradare ogni timore; e ciò che dava impulso al coraggio di affrontare il buio era la certezza che quella piccola luce notturna fosse alimentata da quell’amore materno così forte e rassicurante.
L’esperienza di un insegnamento in una scuola di periferia mi ha consegnato questo regalo: la necessità di esplicitare la motivazione di senso di ogni mia azione educativa come condizione previa di ogni buona riuscita formativa. Se la motivazione di senso è chiara, spiegata e condivisa… altrettanto lineare è la loro risposta che risulta accolta, compresa, vissuta. Ricordo l’esperienza dei numerosi viaggi d’Istruzione; terrore degli insegnanti per il peso delle lunghe notti insonni e gioia di alunni per le lunghe ore notturne di ‘tutta vita’. I ‘patti chiari’ non si potevano basare su minacce preventive supportate da norme di responsabilità civile e penale o del regolamento scolastico sul capitolo ‘disciplinare’… Il ‘patto educativo’ si è sempre fondato su un esplicito e coerente ‘ci sono per voi!’, dal sapore chiaro di concreto atto d’Amore che ha prodotto fondamentalmente risposte di accoglienza d’Amore: rispetto del patto, in quanto rispetto della persona che, in quel patto, mi sta dichiarando semplicemente Amore!” (Marcello).
Da una lettera di un ragazzo: “Grazie prof, perché mi ha fatto capire quanto valgo!” “Occorre imparare i linguaggi dei moderni Gentili, per farsi tutto a tutti come san Paolo ha fatto. E i linguaggi dei moderni Gentili con i quali ho il grande privilegio di relazionarmi sono soprattutto quelli dei giovani dai 15 ai 20 anni, studenti ed ex studenti della scuola secondaria superiore. Ancora prima del linguaggio, occorre focalizzare spazio e tempo per capire dove, come, e quando incontrarli. L’ora di lezione settimanale è un momento prezioso, come fondamentali sono i momenti di educazione alla carità e alla solidarietà durante i quali i ragazzi si mettono in gioco e in donazione” (Amabile).
Dopo aver trattato il senso religioso attraverso Leopardi, Anna scrive: (l’elaborato è stato consegnato all’insegnante di lettere non credente, di fronte al quale è rimasta visibilmente colpita): “Caro il mio Giacomo Leopardi, ma lo sai quanti seguaci ti sei creato qui, nelle nostre aule? Certo non sono pochi i critici che ti hanno dato dell’adolescente immaturo, ma è dir poco straordinario nelle parole della prof. che spiega una tua poesia, sentir vibrare le tue domande più vere, il tuo desiderio più profondo. Voce di quello ‘spirto guerrier ch’entro mi rugge’ che il caro Foscolo aveva fatto notare, ma mai lo aveva lasciato parlare. E chissà cos’altro avrebbe detto quel bravo Ugo! (…) Io parlo, parlo, ma (…) ho paura… È capitato tantissime volte, mi sono ricercata nei momenti di silenzio e di pace, per contemplare quest’infinito mondo, per percepire la natura… ma ora… ora ho 18 anni suonati: Ho lasciato che la mia mente sprofondasse tra le pieghe più buie e profonde dell’essere dove tutto è nero, e ogni cosa perde senso (…). Una cosa però posso dirti: l’Infinito esiste, c’è (…). La soddisfazione, il piacere, la gioia sono percezioni, emozioni, sentimenti intangibili eppure reali. Allo stesso modo, la mia percezione dell’infinito è reale. E ti dirò di più: allo stato attuale è l’unica cosa che regge in piedi: Come può rispondere sennò l’uomo alla crudeltà della natura, alla malignità degli uomini e al suo stato di sofferenza? E poi, il mondo, la società…? Tutto un nulla, uno spreco… un vuoto. No, no e no! C’è qualcosa nel sottile tepore che invade la nostra pelle ad aprile, nel naturale sorriso di un bambino, nel semplice movimento di una mano che parla di perfezione: mi parlano d’infinito. È bello allora scoprire che non sono l’unica in questa affascinante e dolorosa ricerca!”
Testimoniare in classe la propria fede non è facile, scrive Donatella: “Sono cresciuta in una famiglia cristiana: penso che i genitori abbiano come compito quello di educare i figli con la fede che hanno a loro volta ricevuto, ma nel momento in cui essi crescono, devono loro stessi provare un’esperienza personale. Entrata a far parte di un cammino di fede ho inizialmente riscontrato difficoltà nell’appartenere a qualcosa di estraneo agli altri, ai compagni di classe che nella maggioranza si erano staccati dalla religione. Ma andando avanti ho capito quanto era importante per me essere attaccati a Cristo per mezzo di una comunità che è sempre presente, nella quale vieni a contatto con fratelli che possono condividere con te la loro esperienza quotidiana. Attualmente è un qualcosa di cui non riuscirei a fare a meno, perché questo cammino ormai fa parte della mia vita. È sempre difficile parlarne con chi, come quasi tutti in classe, non ha mai provato niente del genere, ma sono consapevole che appoggiandomi a Lui, che è diventato per me la Roccia, potrò gradualmente esplicitare questo mio Credo” (Donatella).
E Roberto, raccontando la sua esperienza di educatore, sottolinea una mancanza che è all’origine della solitudine e del disagio che oggi i giovani vivono: “Quella che non pochi ormai indicano come crisi di civiltà si esplica tra gli altri come difetto all’ascolto. ‘Nessuno ascolta più nessuno’: è il paradossale epilogo di una società pur pervasa dalle mille medialità comunicative. C’è poco tempo per l’ascolto. Non si ascolta mai in modalità integrale, impegnando cioè anche il cuore. Si pensa all’ascolto come disposizione passiva, senza comprendere l’impegno, la dedizione, la donazione che esso piuttosto implica. Il difetto di valori morali che pervade la nostra società è figlio immediato della nostra capacità di ascolto autentico.
Ed interpella immediatamente anche il nostro ruolo di educatori. Il dato più impressionante e costante delle nostre esperienze scolastiche attuali è la rilevazione della crescente fragilità psicologica dei ragazzi. Una volta limitata a casi marginali, oggi largheggia in ogni classe una fragilità che, senza eufemismi, è vera e propria patologia: anoressie, bulimie, dipendenze, bullismo e sopra ogni cosa il diffondersi allarmante della depressione tra i giovani. Nessuno più di un insegnante ha modo di vedere come la nostra sia ormai una società malata e come, dall’angolo visuale delle giovani generazioni, rischi di diventarlo sempre di più. Ogni qualvolta che uno di noi si ‘sporca le mani’ con una di queste vicende, cercando di offrire un supporto, si accorge subito che all’origine c’è sempre un problema d’ascolto. Chi doveva non ha saputo ascoltare il grido d’allarme, la richiesta d’aiuto. E non è solo un problema delle famiglie disunite, anche nelle famiglie formalmente unite non c’è capacità d’ascolto di quei piccoli e grandi problemi che conseguono a quel fenomeno stupendo e drammatico che è la crescita. ‘Papà non c’è, arriva tardi… Mamma fa gli straordinari… quando arrivano parlano di lavoro’: la frettolosa quanto facile elargizione materiale supplisce la vera domanda dei ragazzi, che è domanda d’ascolto. La comunicazione nelle famiglie è ridotta al minimo, al materiale e al formale. Ma non è solo un problema dei genitori, anche i ragazzi non sanno più ascoltarsi tra loro. Nei casi di bullismo che si fanno sempre più frequenti nelle nostre scuole, la cosa che colpisce di più non è tanto la violenza o l’arroganza di pochi, quanto l’indifferenza dei più, senza la quale la violenza non potrebbe consumarsi. I ragazzi non sanno più ascoltarsi, forse perché il muretto e la parrocchia sono stati sostituiti da facebook, forse perché hanno agende quotidiane intense come quelle di un manager, forse perché emulano la sordità dei grandi, forse un po’ per tutte queste cose insieme”.
E don Luigi, che insegna in una scuola professionale, a partire dalla sua esperienza racconta: “Nella nostra società non si è ben di-sposti verso i giovani. La gente non vuole sentire parlare di disagio, di fragilità: il giovane disadattato è ancora troppo spesso considerato una persona da evitare, da scaricare. Come Chiesa dobbiamo scalzare questa mentalità emarginante, che alberga nella società civile, ma dalla quale non è immune anche la comunità ecclesiale. Come Chiesa siamo chiamati a farci promotori di gesti di misericordia: sono gesti evangelici come l’ascoltare, il fermarsi, il mostrare disponibilità, il saper perdere tempo. È ora che ci si renda conto che chi vive una situazione di disagio non è una persona diversa dalle altre, ma è una creatura umana che ha il diritto di essere ancora più amata e rispettata, figlia di Dio al pari di ciascuno di noi. Il disagio, infatti, è sempre un combattimento spirituale, in cui la persona si sente afferrata da forze contrastanti, distruttive e creative.

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