Porta del cielo

Compie mille anni l’abbazia fiorentina di San Miniato al Monte, gioiello del romanico fiorentino

Mille anni or sono, il 27 aprile 1018, il vescovo di Firenze Ildebrando firmava l’atto di nascita di San Miniato al Monte, abbazia tuttora “viva” per la presenza in essa, dall’epoca della fondazione, di una comunità benedettina: attualmente quella degli olivetani. Fino al 27 aprile 2019 il millenario verrà celebrato con un susseguirsi di eventi: convegni, concerti, azioni sceniche… Per l’occasione sono tornati a splendere, dopo i restauri, due tesori artistici di questa chiesa così cara ad ogni fiorentino: le tre porte lignee della facciata e il ciborio che sormonta l’altar maggiore realizzato da Michelozzo con decorazioni robbiane. Fino al 1671 questo elegantissimo tempietto dalle forme classiche ospitò il Crocifisso che approvò il perdono dato da san Giovanni Gualberto all’uccisore del fratello, ora nella chiesa cittadina di Santa Trinità.

Di colpo mi torna in mente una vacanza fatta anni fa a Firenze e la mia visita questo illustre monumento.

In cerca di una antica chiesa dove rifugiarmi per trovare sollievo dall’afa agostana, senza neanche essermelo proposto arrivo sul piazzale Michelangelo, aereo balcone che sovrasta la città dalla riva sud dell’Arno e luogo irrinunciabile per ogni turista. Una scalinata monumentale mi porta ancora più su dove, incastonata fra scabre muraglie di pietra, si offre al sole la marmorea facciata dell’abbazia. I suoi motivi geometrici, l’alternanza di bianco Carrara e serpentino verde richiamano la tecnica a intarsio di epoca classica: una bicromia, questa, ripresa poi lungo i secoli dai costruttori fiorentini per altre architetture sacre.

Contrasta con l’armonioso ed elegante prospetto il tozzo campanile sulla sinistra terminato solo nel 1535, che per le vicissitudini sopportate nel corso del tempo mi dà l’idea di un reduce da antiche battaglie. Una prolungata sosta fuori mi serve a prendere confidenza con questo edificio templare cresciuto sui ruderi di un oratorio d’epoca carolingia (siamo nel periodo in cui in tutta Europa cominciavano a sorgere, o si ricominciavano a costruire, alcuni dei più rinomati capolavori architettonici oggi esistenti).

Sulla porta di sinistra della facciata, detta “santa” perché qui nei pressi vennero rinvenute nel 1013 le reliquie del santo titolare della basilica, un’iscrizione in latino annuncia a chi sale dalla città: «Questa è la porta del cielo»; e un’altra, posta sul pavimento dell’ingresso: «1207. Qui il tempo e la morte perdono il loro potere».

Brusco è il passaggio dalla luce solare e dal movimento di turisti alla mistica penombra dell’interno, dove stranamente mi ritrovo unico (o quasi) visitatore. L’oscurità è voluta, ha il significato simbolico di itinerario dal buio del peccato alla luce che è Cristo, come del resto sottolinea lo stesso orientamento della pianta verso est.

Malgrado l’esterno, nella fascia inferiore caratterizzata da cinque archi a tutto sesto, faccia presagire le cinque navate tipiche delle basiliche paleocristiane, questa chiesa ne ha in realtà tre, scandite da colonne. Ripetono i motivi decorativi della facciata le tarsie marmoree sulle pareti e sugli arconi che attraversano la navata centrale. L’occhio è attirato in alto verso il bellissimo soffitto a capriate di legno, per poi volgersi alla fascia centrale del pavimento, anch’esso intarsiato, dove il pannello con uno zodiaco – un cerchio, simbolo del cosmo, inscritto in un quadrato, simbolo della terra – rappresentava per l’uomo medievale il legame tra i due: come in cielo, così in terra.

Raggiungo l’insolito presbiterio rialzato sopra una piattaforma e da lì, per una rampa, salgo ad ammirare più da vicino, insieme al coro ligneo del XIV secolo e al magnifico pulpito scolpito del 1207, il grande mosaico del catino absidale dove un anonimo artista raffigurò nel 1297 Cristo sovrano assiso in trono tra la Madonna e san Miniato.

Tramite una seconda rampa, discendo nella sottostante cripta, la parte più antica della chiesa (XI secolo), dove si conserva la tomba di colui che viene considerato il primo martire di Firenze. Secondo una leggenda, Miniato era un principe armeno di passaggio a Firenze convertitosi al cristianesimo, che al tempo della persecuzione di Decio, intorno al 250, subì vari e strabilianti tormenti per poi essere decapitato nell’anfiteatro. Altri, invece, ipotizzano che fosse un autentico figlio di Firenze, un soldato di bassa condizione, che testimoniò col sangue la propria fede in Cristo presso un’ansa dell’Arno. Certo è che la sua figura si andò arricchendo nel tempo di particolari fantasiosi, così come – col suo senso del bello – il popolo fiorentino impreziosì, lungo i secoli, la basilica a lui dedicata.

Basta considerare la schiera di artisti che ha lasciato la sua impronta in essa e nell’adiacente complesso monastico: da Michelozzo a Luca della Robbia, da Agnolo e Taddeo Gaddi ad Antonio e Bernardo Rossellino, da Antonio e Piero del Pollaiolo a Spinello Aretino. La scarsa luce permette di cogliere solo brani di tanta bellezza: eppure va bene così, mi basta essere immerso in questo spazio gremito di secolare preghiera.

S’è fatto tardi e non c’è tempo di visitare il chiostro affrescato da Paolo Uccello. Tocca ridiscendere verso Firenze. Con me porto via un po’ del “cielo” intravisto oltre la “porta” di San Miniato.

 

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