Pontiggia. La morte lo rivela
Sorrideva, glissava, cambiava cortesemente argomento Giuseppe Pontiggia, se qualcuno metteva il discorso sulla fede magari alludendo al suo figlio paraplegico; e, conoscendolo, si può essere sicuri che non lo facesse per fastidio né per imbarazzo (non era né un “laico” né un credente, diciamo così, plateale), ma per il pudore che obbedisce all’antico precetto: “Taci, o di’ qualcosa che sia certamente migliore del silenzio”. Lui, che con le parole aveva costruito un castello mirabile perché modesto quanto solido, in cui nessuna di esse era superflua (nell’Italia, anche letteraria, di oggi)! E, soprattutto, che sceglieva le parole come l’artigiano gli arnesi più sottili, con l’impegno la fatica e il compiacimento del caso. Era un ammirevole scrittore, premiato precisamente non per i suoi libri migliori (lo Strega a La grande sera, il Supercampiello a Nati due volte), o, più esattamente, non per ciò che erano, invece per ciò che non erano, “romanzi”, come vuole la logica editorial-pubblicitaria, anche nel secondo caso, veramente improprio. Era un grande moralista, nel senso classico della parola, e nel paese dove pare dia fastidio esserlo; e il buono, l’ottimo anche di quei non-romanzi era proprio la qualità di aforistica osservazione morale delle sue lucide, impietose (con sé stesse) parole. I suoi libri più alti sono appunto quelli saggistici (diciamo così), e quelli indirettamente formati dalla dimensione riflessiva dei “romanzi” (che non sono neppure romanzi “di idee”, ma proprio gnomiche osservazioni sull’uomo). Il lettore non solo intelligente ma serio, non si fa inoltre fuorviare dalla superficie brillante, rapsodica e requisitoria delle argomentazioni di Pontiggia, sempre padrone di sé, ricco di tutti i giusti sottintesi e le giuste allusioni, a volte irresistibile per luce d’intelligenza, spessore di cultura e pertinenza di affondo umoristico, di meritata ironia. Il discorso di Pontiggia è più profondo: senza esibire o distruggere certezze poggia su fondamentali verità umane e umanistiche di sempre, e non vi rinuncia per nessun effetto di battuta o di manifesta superiorità intellettuale. Questo “discorso” è un rapporto tra pensiero e parola elaborato, distillato, filtrato di scorie fino all’evidenza quintessenziale, dunque svolto alla presenza del giudizio intransigente di una norma più che razionale, più che culturale (perciò sfuggevole alle secche di ogni limite illuministico e positivistico), cioè più che legata e ristretta all’epoca e ai suoi gusti e mode; una norma che difficilmente ha un nome solo, ma che si può individuare, pur inafferrabile (è lei che afferra), in una zona di nomi inasservibili quali: dignità, discrezione, elevatezza, dominio di sé, fermezza, capacità di patire, (anche la vanità ultima delle parole umane). Perciò, mentre raccomando al lettore il non-romanzo Nati due volte, autobiografia familiare di decoro classico e pudore cristiano, gli suggerisco Prima persona, che raccoglie e compone in armonia i suoi interventi diaristici, pubblici in libertà privata, tenuti per anni sulla stampa (Il Sole 24 ore) con una puntualità nascosta nella periodicità mensile, una tenacia dissimulata dal pour parler, una serietà mormorante o incalzante in mezzo allo sguaiato frastuono degli pseudo- intellettuali da salotto; doti e pagine che superano di molto l’occasione, e che l’Italia di oggi, salvo l’eccezione di un pubblico appassionato e che si va allargando, è lontana sia dal meritarsi che dall’apprezzare. L’UOMO, L’ARTISTA nel ricordo di chi lo ha conosciuto di Angela Flammia Ora che Giuseppe Pontiggia non è più tra noi, mi accorgo di stare dentro la tristezza come chiusa nella stanza dove ho pur trovato un angolo di riflessione rasserenante. Guardo sulla parete i suoi libri, da La morte in banca a Prima persona, che comunicano a ogni rilettura nuove emozioni, e mi dico che Pontiggia non è affatto scomparso e non scomparirà neppure in avvenire. Di lui si apprezzano soprattutto quattro qualità: l’inventiva, la continuità, la nobiltà, il rigore. Da lui si impara a disprezzare i difetti a cui non ha mai risparmiato la sua tollerante ironia: il cinismo, l’arroganza, il narcisismo, la stupidità. Per “legioni di aficionados” (parole di Riccardo Chiaberge), che per più di sei anni hanno atteso con impazienza e letto con gioia il suo “Album” mensile sul “Domenicale” de Il Sole 24 ore, Pontiggia è stato una presenza lontana ma che ha agito invisibilmente su di loro, un maestro e un amico ideale. In una recente intervista, alla domanda: quale rapporto vorrebbe avere con i suoi lettori? Pensa a loro quando scrive? risponde: “Non mi considero un autore che scrive per sé stesso, ma neppure posso dire di comporre per altri. No, io scrivo per quel me stesso che coincide idealmente con gli altri, ossia per quel me stesso che, una volta terminato il libro, lo leggerà come qualunque altra persona. La mia aspirazione è scrivere qualcosa di cui il lettore possa appropriarsi e in cui possa riconoscersi provando emozione”. Sottolinea che scrivere è ogni volta una prova importante, una sfida. “Anche se scrivo una lettera che sarà gettata via, mi sforzo di farla bene”. Ipotesi inverosimile, che rivela l’innata semplicità dell’autore. “Peppo, per tutti coloro che gli hanno voluto bene – come scrive Gianfranco Ravasi, nel suo dolente e affettuoso ricordo -, amava ricevere lettere a cui rispondeva con la sua grafia ordinata e lieve, specchio della sua anima; egli sapeva fare in poche battute, e nel suo dettato così nobile e semplice, il punto su argomenti complessi dello spirito”. Forse l’impegno che più ha amato è stato l’insegnamento, sintetizzato in un aforisma folgorante: “La prova più ardua per chi insegna non è di fare capire il senso della letteratura ma che la letteratura abbia un senso”. Professore leggendario e amato, suscitava ogni volta l’entusiasmo degli addetti ai lavori, ma non solo. Quando vedo il suo nome stampato, quando lo sento citare, ricordo vividamente l’espressione della sua fisionomia. Quando leggo i suoi scritti posso ancora udire il suono della sua voce.