Pompei e l’Europa

Una mostra articolata in due spazi espositivi d’eccezione ripropone il fascino e l’influsso nell’immaginario europeo della città sepolta dall’eruzione vesuviana del 79 d. C.
Mostra "Pompei e l'Europa"

«Eppure dovrebbe essere laggiù l’ingresso». «Cosa cerca, signora?». «La casa degli Amorini dorati al n. 33. Un custode mi ha assicurato che è aperta al pubblico». «Guardi che la mia pianta la segna sì al n. 33, ma dietro quest’altro angolo. Solo che, come vede dalla recinzione, il passaggio è vietato. Non è possibile che quella domus sia aperta». «Scusi, ma quale pianta ha lei?».

La conversazione con la signora dall’accento toscano si svolge sotto il sole cocente dell’antica Pompei, all’incrocio tra i vicoli dei Vettii e di Mercurio. Solo confrontando le nostre due mappe ci rendiamo conto che sono diverse: mentre la mia è quella ufficiale fornita dalla biglietteria degli scavi, l’altra è stampata dall’albergo dove la signora alloggia. In ogni caso gli Amorini dorati rimangono irraggiungibili: colpa (o merito?) delle insulae finora interessate dal grande Progetto che prevede il recupero totale di quest’area archeologica, secondo sito più visitato d’Italia dopo il Colosseo. No, non è illusione: qua e là, dietro le fragili murature, si odono i rumori di cantieri in attività; e già sono diverse le domus restaurate o, come si dice, messe in sicurezza. Che sia la volta buona per questa Pompei così presa di mira dai media, negli ultimi anni, ad ogni minimo crollo?

Spiacente per la turista toscana e per gli altri che si aggirano nel labirinto pompeiano forniti sì di mappa dei monumenti, ma all’oscuro delle zone interdette per i lavori in corso, la saluto e proseguo la mia visita, io pure costretto a frequenti deviazioni per raggiungere l’anfiteatro. È infatti allestita qui la seconda sezione della mostra Pompei e l’Europa (1748-1943). La prima l’ho visitata ieri al Museo archeologico di Napoli, nell’immenso salone della Meridiana: illustra, con prestiti anche da altri musei italiani ed esteri, la suggestione che le città vesuviane dissepolte hanno esercitato sulle arti e sull’estetica moderna europee dagli inizi degli scavi nel 1748 al drammatico bombardamento del 1943 (sì, perfino Pompei ha subìto i danni dell’ultima guerra come purtroppo oggi altri siti archeologici di Paesi sconvolti da conflitti in corso): influsso del classico che, tra emulazione e reinterpretazione, è possibile cogliere nel confronto tra reperti antichi e opere moderne nel campo delle arti figurative e decorative, dell’architettura e della scenografia, dell’arredo e della moda; ma anche delle opere letterarie, liriche, teatrali e cinematografiche.

Con ancora negli occhi, tra tanta abbondanza, le Deux femmes courants sur la plage di Picasso (1922) e i Gladiatori di De Chirico(1927), dipinti di chiara ispirazione pompeiana,  raggiungo  piazza dell’Anfiteatro e mi inoltro nell’oscura galleria che conduce all’arena. Sbucando all’aperto, percorro la passerella collegata ad una struttura tronco-piramidale di legno e metallo, che evoca sia un mausoleo funerario sia il Vesuvio che incombe sullo sfondo: è l’originale contenitore creato appositamente per la seconda rassegna: Rapiti dalla morte.

Entro e dal messaggio di bellezza e di gusto raffinato offertomi ieri passo ad una diversa emozione: venti calchi in gesso di vittime dell’eruzione, realizzati secondo la geniale tecnica sperimentata nel 1860 dall’archeologo Giuseppe Fiorelli e appositamente restaurati per l’occasione, sembrano galleggiare nel buio sopra sostegni metallici. Riproducono le fattezze di uomini, donne, bambini nei vari atteggiamenti in cui li colse la morte per asfissia dovuta ai gas letali sprigionati dal vulcano. C’è chi sembra placidamente addormentato e chi invece è contratto negli spasimi dell’agonia; c’è la madre che solleva in alto il suo bimbo per un estremo tentativo di salvezza e l’uomo raggomitolato in posizione fetale che si preme sul volto un lembo del mantello; e ci sono due donne allacciate in un estremo abbraccio, forse madre e figlia: poveri corpi sui quali sono ancora visibili le pieghe delle vesti, le cinture, i sandali… Un silenzio meditativo sarebbe d’obbligo davanti a questi calchi nei quali si rivela l’aspetto più tragico della catastrofe del 79 d.C. Purtroppo si è disturbati dal chiacchiericcio dei visitatori.

Lungo le pareti di questo quasi sacrario, una mostra fotografica documenta i progressi degli scavi tra Ottocento e Novecento; molte le immagini inedite e rappresentanti oggetti e affreschi ormai perduti.

Per passare a visioni più liete raccomando, uscendo dall’anfiteatro, la visita alla adiacente Grande Palestra da poco riaperta al pubblico dopo i restauri. L’enorme quadrilatero colonnato con giardino e piscina dove si allenava la gioventù pompeiana offre una visuale magnifica con i suoi platani ripiantati là dove erano un tempo e con la cresta del Vesuvio che spunta oltre il tetto.

Parte dell’elegante porticato è adibita a spazio espositivo dei raffinatissimi affreschi rivenuti a Moregine, suburbio di Pompei lambito dal fiume Sarno, dove alcuni decenni fa venne scavato una sorta di albergo a cinque stelle fornito di sontuosi triclini.

La visita è ormai al termine. Mentre m’avvio verso l’uscita degli scavi, ritrovo accasciati in varie posizioni, all’ombra dei lecci del viale, alcuni degli ormai famosi cani randagi pompeiani. Suggestionato da quanto appena visto, li immagino tutti trasformati in “calchi”. Come quello, celebre, dello sfortunato cane che non riuscì a fuggire perché legato alla catena nella domus detta di Orfeo.

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