Pollock e gli arrabbiati
Arte è ribellione? Spesso sì. Anzi, quasi sempre. Anche gli artisti che appaiono più conformisti o tranquilli, in verità hanno, più o meno evidente, una linea divergente rispetto all’establishment.
Ma quando Jackson Pollock decide di incarnare all’estremo arte e vita negli anni Quaranta-Cinquanta del Novecento scatta una voragine fra due modi diversi di intendere l’arte. Quello della continuità con la tradizione, ossia della “narrazione”, e quello invece del momento magico dell’ispirazione, in cui pensiero, fantasia, immaginazione si creano all’istante su un vetro o su una tela con colori dati a spruzzo, vernici che lasciano gocciolare il colore in enormi superfici. È la fine della pittura di cavalletto: Pollock lavora sulla tela, ci gira intorno, raccoglie i gocciolamenti del colore, si infila nel quadro, diventa lui il quadro.
È la ribellione netta, infuriata, contro secoli di far arte. Come certi pellerossa del West che dipingono con la sabbia, l’americano Pollock si libera dall’Europa e inventa un modo nuovo, estroverso, di dipingere. Si libera l’inconscio, si cercano i grandi archetipi collettivi. Di qui un universo frantumato di tinte, striature come impazzite. Di fronte al suo capolavoro, forse, il “Number 27” del 1950 non ci si perde nella frantumazione iridescente di luci ,segni, di una frenesia a dire il vero solo apparente. Perché nei 50 quadri che Milano mette in mostra – insieme a lavori di Rothko e de Kooning fra gli altri – si annida lo spettro di una fantasia che segue un flusso pittorico senza confine. Di fronte alle sue tele ci si sente come negli spazi cosmici di un film che uscirà a breve, Gravity, la storia di due astronauti persi, o meglio felici, nell’immenso spazio siderale.
Pollock e i suoi amici “irascibili”, come li denominava l’Herald Tribune hanno cercato di cogliere l’attimo ispiratore, lasciar parlare il flusso emotivo e l’emersione del subconscio: guidati a correre all’infinito. Pittura caotica, casuale, disordinata?
Non si direbbe. Pittura invece affascinante. Nel groviglio di segni, di masse, c’è un cosmo in via di espansione. Nei filamenti multicolori si richiamano quelli dell’esistenza, nelle macchie i momenti scuri di essa. Pollock e gli amici amano le dimensioni enormi, quasi volessero imprigionare l’infinito e nello stesso tempo seguirlo verso mondi che non si fermano mai.
C’è un'ansia – forse una paura – o comunque un'attesa che dietro il groviglio, oltre le tinte fosforescenti di colori sottilissimi e bellissimi ci sia dell’altro. L’Altro? Chi lo sa. Pollock si schianta con la sua automobile un anno dopo la morte del divo James Dean. Avevano fretta di autodistruggersi? Mistero.
Certo lui e i suoi amici hanno fatto dell’arte l’esplosione totale, una bomba atomica di ciò che è nell’uomo e lui nemmeno conosce del tutto. Ma, tentando di regolarlo, di imprigionarlo, pur negli spazi grandiosi delle tele. Forse però l’anima ha corso più forte di loro.
Dopo, ci sarà la pop arte di Warhol (anche lui in mostra a Milano): altra cosa. Essi intanto dicono a noi oggi la voglia immensa di comunicare subito ciò che si è, di dire lo spirito umano in ogni suo prisma lucido o cupo, per quanto possa apparire confuso e disordinato. Ma è il disordine della vita. E questo è bellissimo.