Politica, urge un rinnovamento
Il potere logora chi non ce l’ha È la celebre affermazione di Giulio Andreotti, oggi novantaquattrenne senatore a vita, sempre presente, senza soluzione di continuità, dal 1945 in avanti, nelle assemblee legislative italiane. Caso unico di attaccamento al potere? Certamente no, nel panorama politico globale. Ma certamente più ricorrente nei regimi totalitari piuttosto che in quelli democratici.
In Medio Oriente, come nelle Americhe Centromeridionali, come in Africa, molti governi sono stati, più spesso che altrove, controllati a lungo da un'unica potente personalità, assumendo i caratteri di un'autocrazia, in aggiunta a quelli di una dittatura militare. Leader come Idi Amin, Muammar Gheddafi, Gamal Ab del-Nasser, hanno cercato di alimentare il culto della propria persona, diventando l'emblema stesso della nazione sia all'interno che all'esterno dei loro Paesi.
Teodoro Obiang Nguema Mbasogo è al potere in Guinea Equatoriale dal 1979 (33 anni). Non è record assoluto. Perché Fidel Alejandro Castro lo è stato a Cuba dal 1959 al 2008, fino a che, ottantacinquenne, ha passato il testimone al fratello Raul (dopo mezzo secolo tondo tondo). Castro è seguito a ruota da Muammar Gheddafi, che in Libia ha tenuto il potere dal 1969 al 2011 (43 anni). Francisco Franco, in Spagna, ha governato il Paese per 37 anni (dal 1939 al 1975); Alfredo Stroessner il Paraguay per 35 anni (dal 1954 al 1989) e per 32 anni Rafael Leònidas Trujillo (dal 1930 al 1961) è stato alla guida della Repubblica Dominicana.
Non figurano male in questa graduatoria neanche Maumoon Abdul Gayoom, per 31 anni al vertice delle Maldive (dal 1978 al 2008), Hosni Mubarak, per 30 anni a quello dell’Egitto, dal 1981 al 2011, Mobutu Sese Seko, per 26 anni a quello del Congo (ex Zaire, dal 1965 al 1990), e Saddam Hussein, per 25 anni a quello dell’Iraq (dal 1979 al 2003). Dal 1999 Hugo Rafael Chávez Frías è il presidente del Venezuela. In fondo "solo" da 14 anni. È stato appena rieletto per il 4° mandato ma, avendo cambiato in proprio favore la Costituzione, può ancora sperare – aspettativa di vita permettendo (ha solo 59 anni) – di puntare ad altri successivi mandati. Auguri.
Torniamo a casa nostra L’annuncio di Walter Veltroni e di Pierluigi Castagnetti (per entrambi più di 30 anni di carriera politica) di non volersi ricandidare alle prossime elezioni nazionali ha suscitato scalpore, facendo notizia. Come mai? In fondo il ricambio della classe politica dovrebbe essere un fatto di ordinaria amministrazione, così come accade in altri Paesi (vedi Gran Bretagna). L'Italia sconta un grande ritardo nel ricambio generazionale della classe dirigente e un'ingessatura nella mobilità sociale ascendente. E questa lentezza, che rende il nostro Paese lo Stato gerontocratico per antonomasia, acquista maggiore drammaticità se guardiamo la società nel suo complesso.
Alle elezioni per l’Assemblea Costituente in Tunisia sono stati candidati anche giovani al di sotto dei 25 anni. Tre di loro sono stati eletti e siedono accanto ai più anziani, impegnati a scrivere la carta fondamentale della nascente democrazia del loro Paese.
Come si può accreditare una nuova classe dirigente? Come può avvenire in Italia il ricambio generazionale? In primo luogo, molto semplicemente, prevedendo per tutte le cariche elettive, per legge, un tetto al numero dei mandati (due-tre al massimo), così come già avviene ad esempio per i sindaci e per i presidenti di provincia.
E poi ci possono essere due modalità. La prima è quella della spallata "violenta" (la rottamazione) alla vecchia classe dirigente, che da sola difficilmente si schioda dalle poltrone. Non è una via compatibile con un sistema democratico.
La seconda modalità, ragionevole e da privilegiare, è quella che siano gli stessi partiti a favorire la crescita di una nuova classe dirigente, favorendo una rappresentanza a tutte le fasce, e mettendo in atto la selezione sulla base del merito. Il ricambio generazionale può essere un grande strumento solo se viene filtrato dalla qualità: si affida un ruolo di responsabilità ad una persona non perché è più giovane, ma perché è migliore. Bisogna stare attenti a non scivolare in un giovanilismo sterile e sciocco. Perché è impossibile far reggere l'equazione che "giovane" è uguale a "migliore". «Il giovanilismo – ha scritto il politologo Giovanni Sartori – è un caso da manuale di miopia e di stupidità predittiva. Ho conosciuto moltissimi maestosi imbecilli di ogni età».
Serve un patto tra generazioni che consenta, in modo quasi naturale e non conflittuale, al Paese di liberarsi da una ingessatura di ruoli a vita (nella politica, come nelle amministrazioni pubbliche, nelle università).
In quello straordinario manifesto della più alta rivoluzione sociale che è il Magnificat, troviamo un modello emblematico. Vi troviamo verbi "gentili" («depose» i potenti dai troni, «innalzò» gli umili): nessuna contrapposizione violenta, nessuna rottamazione, solo un avvicendamento, un ricambio sociale, che ha luogo in modo pressoché indolore: una gentile «deposizione», un gentile «innalzamento».