Politica, società e partiti come li racconta il cinema

Scenari di liquefazione di appartenenze e di ideali nella recente produzione filmica italiana. Lettura de “Il nome del figlio” di Francesca Archibugi in parallelo con una visione retrospettiva di  storie cinematografiche che lasciano aperta una richiesta di attenzione alla realtà
film Archibugi

Tempi liquidi corrono sempre più veloci, e figuriamoci se la destra e la sinistra italiche potevano rimanere estranee ad una crisi di identità. Soprattutto la seconda, storicamente incline all’autoanalisi e allo studio di se stessa, ormai da decenni divenuta “Cosa” e poi altre cose. Il cinema italiano, da sempre bravo a registrare le mode e i cambiamenti, di fotografie del nostro clima politico ne ha scattate tante, e continua volentieri a fare click. L’ultimo flash, in ordine di tempo, è quello di Francesca Archibugi, che con Il nome del figlio, ancora nelle sale, misura l'attuale livello di liquefazione di schieramenti politici, culturali e antropologici nostrani, sempre più orfani di punti di riferimento. Nel suo film, il figlio di un importante politico comunista del passato guadagna molto bene vendendo case ai ricchi, gira in Suv ed ha sposato un personaggio reso famoso dalla tv, che viene dalla periferia e ha pure scritto (o le hanno scritto) un piccante romanzo di successo.

L'amore tra individui politicamente agli antipodi (lei di sinistra, lui di destra) era già il tema di una commedia italiana recente, Passione sinistra di Marco Ponti, del 2013, ma sviluppato così superficialmente che le battute interessanti non erano più di un paio: «Siete rimasti tu e alcuni talebani a credere ancora in destra e sinistra», diceva un'amica alla protagonista del film, mentre Il nome del figlio ha più sostanza, e in una bella casa piena di libri, con pianoforte a coda e terrazza su Roma, l'agente immobiliare e la scrittrice de noantri, si azzuffano durante una cena con la sorella di lui, insegnante, e col suo marito docente universitario, saggista di sinistra e legatissimo all'importante passato della famiglia acquisita. Il colto professore si sente migliore di quelli che vengono dalla periferia, godono di grande popolarità e lo beffano in fatto di copie vendute. «Sei l'incarnazione della disfatta del nostro Paese»dice apertamente il professore alla cognata, incolpandola delle frustrazioni di persone attente e serie come lui, che però, senza la mano del suocero, all'università non avrebbe mai insegnato, probabilmente. Poi inizia un percorso di autocoscienza collettiva e gli opposti convengono che la verità, l'intelligenza e la qualità delle persone contano più delle appartenenze e degli schieramenti. Scoppia la pace tra i borghesi impegnati di sinistra e i borgatari disinteressati alla politica, coi primi che provano a rimuovere il fardello (psicanalitico) che li rallenta e a buttarsi nel futuro. End tutto sommato happy, dopo che a tratti, quella cena aveva ricordato il talk politico balneare inscenato da Virzì vent’anni prima in Ferie d'agosto, anno 1995. Altri tempi, anche se sembra ieri, coi Mazzalupi da una parte, commercianti capitanati da uno che di libri ne aveva letti pochi, diciamo nessuno, a parte «il libretto di istruzioni del suo cellulare»(battuta mitica del film), contro un gruppone di amici tutti schieratissimi a sinistra, tenuti insieme dall’intellettuale Sandro Molino. Di libri, i secondi ne avevano più dei primi, ma di irrisolti non ne avevano meno dei loro rivali qualunquisti, caciaroni dirimpettai per caso sull’isola di Ventotene, imbottiti di tv anche a ferragosto, e pure un po' razzisti.

Il Pci non c’era più da una manciata d’anni, e la sua fine al cinema era stata raccontata già un paio di volte: Zitti e Mosca di Alessandro Benvenuti, 1991, e Mario, Maria e Mario di Ettore Scola, 1993. C’era da poco Berlusconi, e il suo avvento lo avrebbe raccontato Nanni Moretti qualche tempo dopo: Aprile, 1998. A Ventotene non c’erano patti, soltanto urlata incompatibilità. Un pugno di anni dopo, però, nel 2003, lo stesso Virzì mostrava una destra e una sinistra sottobraccio, entrambe abituate al potere e al privilegio, coi deboli e gli esclusi che da fuori osservavano depressi ed invidiosi. Il film era Caterina va in città e si scoprivano sorprendentemente d'accordo un ministro di destra e un intellettuale radical-chic dell’altra sponda. Il nome del figlio non racconta inciuci, ma il tentativo di uscire dal pregiudizio umano che impedisce di conoscersi; nessun calcolo nell'aprirsi all'altro, nemmeno omologazione in stile «rossi e neri sono tutti uguali»(Ecce bombo, 1978), piuttosto lo sforzo (sano) di uscire dai propri rassicuranti recinti, di fare i conti con se stessi e con un passato importante divenuto però gabbia, molo, cuccia con catena. Virzì, con Caterina va in città non risparmiava destra né sinistra, ma in fondo ce l'aveva col potere; Il nome del figlio rientra invece nelle commedie di una sinistra che si analizza e fa autocritica, ricordando un illustre precedente della fine degli anni '70, fotografia di un delicato momento di passaggio per tutti e di crisi per la sinistra borghese italiana di allora: La terrazza di Ettore Scola, uno che ha riempito spesso di politica i suoi film, e che già dieci anni prima, nel ‘70, con Dramma della gelosia, aveva raccontato (quella volta attraverso personaggi popolari) la passione, le sfumature, le contraddizioni e le diversità nella sinistra italiana subito dopo il '68. Senza dimenticare C’eravamo tanto amati, del ‘74, suo discorso ancor più articolato su trent’anni di storia politica di casa nostra, commedia drammatica sul nostro dopoguerra e ancora riflessione su quella sinistra italiana che non smette mai di riflettere su se stessa, di specchiarsi e raccontarsi. Ecco di recente Le ombre rosse di Citto Maselli, 2009, sulla condizione della sinistra attuale, oppure Baarìa di Giuseppe Tornatore, dello stesso anno: tuffo dentro cinquant’anni di passato rosso italiano, dai ’30 agli ’80. O ancora Cosmonauta di Susanna Nicchiarelli, sempre del 2009, altro film sulla memoria, sugli anni della guerra fredda e della corsa allo spazio visti da una sezione del Pci della periferia romana.

E il presente? La crisi? L’antipolitica? L’attualità? Ecco il PD composto di diverse anime e obbligato al compromesso in Diverso da chi? di Umberto Carteni, del 2009; o ancora fragile e spaccato in Arance e martello di Diego Bianchi, del 2014, ma ambientato nell’estate del 2011, l’ultima, al governo, di quel Berlusconi di recente centrale nell’interessantissimo Belluscone di Franco Maresco. Ecco l'aspirante sindaco rottamatore che nel già citato Passione sinistra mescola (per accumulare voti) il biologico, internet, i giovani e l'ambiente; ed ecco la grande bruttezza politica incarnata da Cetto La Qualunque in Qualunquemente, o mostrata nel reportage un po’ volgare ma efficace di Massimiliano Bruno, che con Viva l’Italia, del 2012, narra gli antichi mali di un Paese malato di nepotismo, corruzione, favoritismi, raccomandazioni, scandali e malasanità; il suo film finisce con una richiesta di verità, con quel desiderio di moralità e di nuovo corso che si respirano anche in commedie come Benvenuto Presidente! di Riccardo Milani e Viva la libertà di Roberto Andò, entrambi del 2013, ed entrambi sul (bi)sogno di una classe politica più umana, semplice, concreta ed utile. Ma se l’immagine dei politici dovesse corrispondere a quella impietosa offerta da Marco Bellocchio in Bella addormentata, del 2013, dove uno psichiatra spiega a un senatore che la preoccupazione dei politici è che «la televisione non li chiama, questo è il loro dramma», allora non abbiamo più speranze, e la vecchia domanda di Gaber sull’identità di destra e sinistra ha davvero poca importanza: sono altri, enormi, i problemi da risolvere.

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