Politica ed elezioni: gli ateniesi fanno ancora scuola…
È nelle vicende di Ateneche troviamo applicata, attraverso l’utilizzo di meccanismi molto sofisticati, la prima forma di quella che abbiamo definito accountability politica.
Dopo la riforma del 461 a.C. voluta da Efialte, attraverso la quale furono abolite gran parte delle prerogative dell’Areopago, ultimo baluardo del potere aristocratico, si instaurò ad Atene un regime politico che gli storici hanno definito “democrazia radicale”: il potere era ormai nelle mani del popolo, il quale manifestava la propria volontà votando nell’Assemblea (εκκλησία – ekklesìa), convocata normalmente dieci volte l’anno e aperta alla partecipazione attiva di tutti i cittadini. A questo punto, seguendo Borowiak, dobbiamo, però, far subito una puntualizzazione importante: né gli schiavi, né le donne, né i bambini, né i meteci (stranieri residenti come, ad esempio, Erodoto o Protagora), ovvero più di due terzi della popolazione complessiva, avevano la possibilità di prender parte alle riunioni di tale organismo; la democrazia ateniese, tanto celebrata, appare, dunque, molto simile a quello che oggi definiremmo un’oligarchia.
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Per comprendere meglio la specificità del sistema ateniese occorre, prima di tutto, chiarire che la quasi totalità di coloro che venivano individuati come pubblici ufficiali erano scelti attraverso la pratica del sorteggio.
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Le cariche più rilevanti, tuttavia, ovvero quelle concernenti l’amministrazione delle finanze pubbliche e gli affari militari, venivano assegnate tramite elezione e, contrariamente a quanto accadeva per i magistrati estratti a sorte (il cui mandato era di durata annuale e non poteva essere rinnovato), un cittadino poteva essere eletto un numero indefinito di volte per svolgere la stessa mansione (Pericle, ad esempio, fu stratego per più di vent’anni consecutivi). Sia per coloro che venivano individuati attraverso l’estrazione a sorte (a partire da un elenco di volontari che, accettando di essere presi in considerazione, evidentemente reputavano se stessi in grado di farsi carico di una responsabilità pubblica), sia per chi, invece, veniva eletto, si trattava di esercitare poteri non certo illimitati.
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Chi si rendeva disponibile all’esercizio di una carica pubblica era, comunque, consapevole che, con ciò, sarebbe stato sottoposto al controllo diretto dei propri concittadini in tre fasi: prima che tale ufficio potesse essere acquisito, durante il mandato e al momento della conclusione della sua esperienza.
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Meno “formali” erano invece le pratiche di impeachment, che potevano essere messe in atto durante l’anno di esercizio delle funzioni pubbliche: nel corso di una delle riunioni dell’Assemblea ogni cittadino (qualsiasi ateniese che voglia fra coloro che possono) poteva richiedere che un ufficiale venisse sottoposto a un voto di fiducia e, nel caso in cui tale fiducia gli fosse stata negata dalla maggioranza degli intervenuti, le sue funzioni sarebbero state sospese fino al processo definitivo. Tale pratica era denominata αποχειροτονία (apocheirotonìa – letteralmente: “votazione contro”).
Nel caso in cui, poi, un magistrato fosse stato sospettato di gravi misfatti, qualunque cittadino poteva metterlo sotto accusa attraverso l’εισαγγελία (eisanghelìa – letteralmente: “denunzia”): erano le corti popolari (δικαστήρια – dikastèria), dopo il passaggio in Assemblea, a occuparsi di tali procedimenti, che riguardavano in particolare reati politici e religiosi (fu attraverso un processo di εισαγγελία – eisanghelìa, ad esempio, che furono messi a morte, nel 406 a.C., i vincitori della battaglia delle Arginuse, accusati di non aver soccorso i naufraghi).
Il meccanismo di accountability per noi più interessante, tra quelli utilizzati nell’Atene democratica è, però, senza dubbio quello definito ευθύνα (eutùna – letteralmente: “rendiconto”), ovvero l’esame al quale erano sottoposti tutti gli ufficiali, eletti o estratti a sorte, al termine del proprio mandato annuale. Esso si articolava in due fasi. In un primo momento i λογίσται (loghìstai – dieci magistrati scelti attraverso il sorteggio) valutavano l’aspetto finanziario, ovvero l’utilizzo, corretto o meno, delle risorse pubbliche. Se essi avevano il sospetto che il comportamento del magistrato messo sotto esame non fosse stato, in questo ambito, ineccepibile, trasmettevano la pratica ai συνηγόροι (sunegòroi – letteralmente: “difensori”) i quali gestivano il processo vero e proprio; se fosse stata confermata l’accusa di appropriazione indebita, il magistrato ritenuto colpevole avrebbe dovuto restituire dieci volte la somma in questione, mentre se si trattava di sanzionare una cattiva gestione, la pena era ridotta a due volte la quantità di denaro mal amministrato.
La seconda fase dell’ευθύνα (eutùna) riguardava, invece, aspetti non finanziari: per tre giorni dieci esaminatori, riuniti in una giuria e denominati ευθύνοι (eutùnoi), si mettevano in ascolto dei propri concittadini ed esaminavano il comportamento dei magistrati uscenti; ognuno poteva, in questo arco di tempo, addurre a loro carico accuse di disonestà o inefficienza nell’esercizio delle pubbliche funzioni; se gli ευθύνοι (eutùnoi) riscontravano una qualche fondatezza nelle imputazioni, allora il caso veniva trasmesso ai θεσμοθέται (tesmotètai – gli ultimi sei arconti, cui spettava la revisione delle leggi), che avrebbero valutato l’entità dell’offesa pubblica. Qualora il magistrato fosse stato assolto, egli non sarebbe incorso in nessuna pena; se, al contrario, fosse stata provata una qualche forma di scorrettezza nella sua condotta pubblica, allora egli sarebbe stato privato dei diritti di cittadinanza, non avrebbe più potuto parlare in pubblico, gli sarebbe stato proibito di viaggiare, di vendere o comprare una proprietà e, addirittura, di praticare sacrifici e fare offerte religiose.
Accanto a questi meccanismi di accountability volti al controllo dell’operato dei pubblici ufficiali, vi era poi una pratica che riguardava in maniera più ampia tutti coloro che prendevano la parola nell’εκκλησία (ekklesìa), ovvero la γραφή παρανόμων (grafè paranòmon – letteralmente: “accusa di illegalità”), attraverso la quale ogni cittadino poteva querelare chi avesse sottoposto all’Assemblea una proposta ritenuta illegale, persino qualora essa fosse stata approvata all’unanimità (chiaramente a esser messo sotto processo sarebbe stato soltanto il proponente, non i votanti); in questo caso, una volta avviato il procedimento, la legge o il decreto analizzati venivano sospesi fino al pronunciamento delle corti.
Questa breve elencazione dei meccanismi di accountability operanti nell’ambito della democrazia ateniese ci è utile non solo come riferimento storico, ma anche per chiarire alcune questioni cruciali che ci riguardano da vicino. In primo luogo pensare che tali pratiche ad Atene avessero di mira soltanto il controllo dei pubblici ufficiali è fuorviante: si trattava, infatti, di favorire soprattutto la partecipazione, la visibilità e la mutualità, nel tentativo di dar forma a una comunità politica vera e propria. Ad Atene la responsabilità dei magistrati consiste in una responsabilità civile che si sovrappone a quella personale, poiché in questa società l’uomo è compiutamente definito solo dal suo essere cittadino (ζῷον πολιτικόν – zòon politikòn), membro attivo di una πόλις (pòlis), il cui dominio è la sfera dell’autentica libertà e felicità: «un uomo che vivesse solo una vita privata […] non era pienamente umano».
Anna Ascani, Accountability, la virtù della politica democratica (Città Nuova, 2014)