Poca Europa nel voto
Astensionismo e scarsa riflessione sui temi continentali. Significativo il successo di candidate in dialogo diretto con la gente.
È pur vero che le vicende in cui è incorso il Trattato di Lisbona la dicono lunga sulla sopravvenuta perplessità nei confronti dell’Europa unita da parte degli europei. È pur vero che la politica italiana oramai è divenuta il reality al quale non si sottraggono nemmeno i più schifiltosi nei confronti del Grande fratello.
Ma trovarsi a vivere una intera campagna elettorale – e successive elezioni, il 6 e 7 giugno, dei 72 membri italiani del Parlamento europeo – nella totale assenza dell’Europa, è davvero troppo. Complici anche le elezioni amministrative, che sul territorio hanno coinvolto 61 province e centinaia di comuni, la scelta dei deputati europei si è persa, come un puntino all’orizzonte.
Fanno però riflettere alcune clamorose eccezioni. Qua e là per l’Italia si sono verificate elezioni sorprendenti, di donne per lo più – ed anche
sconosciute su scala nazionale –, che hanno conquistato addirittura il primato delle preferenze nel loro territorio grazie ad una campagna elettorale giocata principalmente sul fronte del contatto diretto con i cittadini, e parlando di Europa. Sì, proprio parlando d’Europa.
sconosciute su scala nazionale –, che hanno conquistato addirittura il primato delle preferenze nel loro territorio grazie ad una campagna elettorale giocata principalmente sul fronte del contatto diretto con i cittadini, e parlando di Europa. Sì, proprio parlando d’Europa.
Quanti di noi si sono accostati all’urna documentandosi almeno un po’ sui candidati presenti nelle liste (tre preferenze da spendere bene!), sulla loro opinione nei confronti dell’Europa e sul grado di competenza e capacità di esercitare il mandato di parlamentare europeo, hanno fatto la propria parte in modo egregio. Così come chi ha conservato la libertà di non votare “contro” qualcuno ma “per” qualcosa: confine labile ma esistente.
L’esito delle urne, alla fine, ha proiettato un quadro politico denso di novità. Nell’ambito della maggioranza, pur senza grandi sommovimenti, si registra l’affermazione netta della Lega Nord, che, col suo 10,2 per cento, va ad ingrossare le fila dei già troppi parlamentari che hanno puntato sull’euroscetticismo, sul rifiuto degli immigrati e su istanze xenofobe.
Ma il successo del partito di Bossi va anche ad insidiare il primato del Pdl in tanti territori del Nord Italia, tanto più che il maggior partito nazionale non ha raggiunto e sfondato, come si aspettava, la soglia del 40 per cento (fermandosi al 35,3), mentre ha segnato nei risultati delle amministrative un notevole balzo in avanti. Gli equilibri interni alla maggioranza si ridisegnano quindi col baricentro spostato verso la Lega.
Anche nelle fila dell’opposizione il successo ha premiato i partiti minori, mentre restano senza rappresentanza europea radicali e partiti della sinistra. Il balzo in avanti dell’Idv – che ha raddoppiato i propri consensi, conquistando l’8 per cento – e il risultato dell’Udc, che consolida le proprie posizioni (6,5 per cento) probabilmente a spese dell’ala centrista del Pd, hanno l’effetto di rallentare la corsa verso il bipolarismo. Tanto più che il Pd, pur limitando i danni rispetto a certe temute previsioni, è sceso al 26,1 per cento (contro il 33,2 delle politiche dello scorso anno) e ha subìto un tracollo nel voto amministrativo, con solo 14 province confermate rispetto alle 50 del 2004 (22 sono al ballottaggio mentre scriviamo), mentre nei comuni capoluogo si è passati da 26 a 5, con 16 al ballottaggio.
Ultimo, ma primo in ordine d’importanza, il dato dell’astensionismo. Pur se in ambito europeo l’Italia è tra i Paesi più partecipativi, la percentuale del 66,46 per cento dei votanti (72,88 nel 2004) non è all’altezza della sua storia europeista ed aggiunge un altro anello alla catena di dati in discesa che, elezione dopo elezione, si susseguono da un po’ di anni. Il calo della partecipazione al voto è un dato politico significativo, con cui ci si dovrà seriamente misurare.
Riscoprire la Comunità europea
di Giovanni Romano
L’emiciclo di Strasburgo si presenta molto più frammentato che per il passato. Le grandi famiglie politiche europee stanno infatti sperimentando trasformazioni profonde. L’Europarlamento si è infatti dovuto riorganizzare profondamente per far spazio a nuove formazioni, sancire scissioni, inaugurare nuove aggregazioni.
Il primo dato da osservare, tuttavia, è che la percentuale di astenuti ha fatto toccare la cifra più alta da quando il Parlamento europeo (1979) è eletto a suffragio universale. Da quasi il 62 per cento dei votanti nel 1979 si è progressivamente scesi all’attuale 43 per cento.
Perché questa disaffezione dei cittadini per l’Europa? Diverse le cause. Certo, c’è la tecnocrazia europea che non affascina nessuno. Ma c’è anche il noto gioco inglese del blame game: i nostri governanti spesso trovano comodo accusare l’Europa di non fare cose (governo dell’economia, politica estera europea) per fare le quali essi stessi dovrebbero decidere di darle i poteri necessari. L’economia è globale, le sfide sono mondiali, ma la politica in Europa rimane nazionale o addirittura locale. America, Russia, Cina e India, da una parte, 27 litigiosi Staterelli europei, dall’altra: non c’è partita.
La seconda osservazione da fare è che dal voto europeo emerge l’immagine di un popolo europeo abbastanza disorientato, sempre più attanagliato dall’incertezza del futuro. Ci sono formazioni politiche che ne traggono vantaggio. Ma le nostre paure sono inversamente proporzionali al nostro sentirci membri di una comunità reale, aperta, attiva. C’è una saggezza nella definizione del 1957 di “comunità europea”: riscopriamola. Altrimenti si avvia una deriva verso un’Europa sempre più concentrata su sé stessa, meno disposta ad accettare i rischi dell’essere parte di un mondo che si trasforma rapidamente e che potrebbe presto relegarci ad un ruolo marginale nella storia. Vogliamo l’“Europa-fortezza”, cioè un’Europa arroccata nella difesa di non si sa più quali primati, o l’“Europa-siepe”, vale a dire un’Europa fiera della sua identità plurima, ma senza barricate?
Il nuovo Parlamento europeo
In termini percentuali, il Partito popolare europeo (che ha subìto la defezione dei conservatori britannici) ha il 36 per cento (rispetto al 36,7 del 2004) dei seggi, mentre i socialisti solo il 22 per cento (avevano il 27,6 nel 2004). Un gruppo federato Pse-Democratici (per “ospitare” i deputati italiani del Pd) fa sulla carta passare tale percentuale al 25 per cento. I liberali scendono dal 12,7 al 10,9 per cento, mentre i verdi crescono dal 5,5 al 6,9. L’estrema sinistra perde seggi, arretrando dal 5,2 al 4,5. Gli euroscettici sono anch’essi in calo (dal 5,6 al 4,8). Il 12 per cento dei seggi appartiene a formazioni varie, che hanno poi scelto alleanze ritenute più consone alla propria ispirazione, generando ulteriori cambiamenti nell’assetto dell’assemblea di Strasburgo.