Quando il Po incontra il Don
In ambito letterario, il fiume come metafora del fluire della vita ha sempre avuto fortuna. Le sue correnti infatti, che ora tranquille e maestose ora in tumulto per le rovinose piene accompagnano il susseguirsi delle generazioni nei territori da esse fecondate, sembrano fornire lo scenario ideale per piccole e grandi storie. È il caso di quel Mulino del Po che Riccardo Bacchelli scrisse tra il 1938 e il 1940, tradotto poi in film da Alberto Lattuada e in versione televisiva da Sandro Bolchi: romanzo che narra le vicende di una famiglia di mugnai fluviali ferraresi lungo l’arco di un secolo, dal 1812 al 1918. In questo spaccato di un’epoca, la cosiddetta grande storia mossa dai governanti interferisce con la piccola storia della gente semplice, con l’umanità del popolo ignaro, che ne fa le spese.
Epopea di umili molinari densa di poesia, essa inizia e si conclude tra due battaglie combattute – vedi caso – in riva a due fiumi: il Vop, in Russia, dove il capostipite Lazzaro Scacerni scampa alla morte durante la tragica ritirata dell’esercito napoleonico, e il Piave, nel corso della Prima guerra mondiale, dove con l’uccisione di un altro Lazzaro, ultimo suo discendente – chiosa Bacchelli, terminando il terzo volume della sua saga contadina, ora ripubblicata negli Oscar Baobab di Mondadori –, «finiva la gesta dei mugnai del mulino di Po, cominciata la notte d’un disastro lontano, anche su un fiume, perduto nel tempo che volge e rivolge coi giorni e con noi ogni cosa nel segreto di Dio».
Totalmente in Russia, invece, la Russia del sud-est con le sue steppe sconfinate, si svolge un’altra saga di ampio respiro per la quale Michail Aleksandrovič Šolochov chiamò in causa il quinto corso d’acqua d’Europa, il Don. Ne è protagonista, anche qui, gente che trae il proprio sostentamento dalla terra, alle prese con le grandi idee di libertà, uguaglianza e giustizia: il fiero popolo cosacco, geloso della propria cultura e autonomia quanto lo è del suo fiume.
Scritto in un arco di tempo molto più ampio del capolavoro di Bacchelli, ma ad esso contemporaneo (1928-1940), Il placido Don inizia, si può dire, là dove quello termina: celebra infatti – attraverso le peripezie di Grigorij Melechov, ufficiale dell’esercito zarista, dapprima dalla parte dei bianchi e poi sempre più vicino ai rossi bolscevichi – la tragedia di un popolo travolto dalla guerra civile seguita alla rivoluzione del 1917. Šolochov stesso era cosacco di Kruzilino, regione del Don.
Oltre a Grigorij diviso tra due amori, quello per la legittima moglie Natalia e per la bella Acsinia, l’autore dà vita ad una vera selva di personaggi, molti dei quali resi indimenticabili con poche magistrali pennellate pur comparendo di sfuggita. Essi vivono, muoiono, lottano, amano, soffrono sentendosi parte di una natura selvaggia: la steppa nativa pettinata dai venti, le cui descrizioni liriche non riescono tuttavia a temperare la crudezza di tante pagine grondanti sangue.
E poi c’è il Don, personaggio onnipresente se non altro nel ricordo nostalgico di chi gli è nato accanto, il Don le cui acque tranquille accompagnano lo scatenarsi delle passioni umane, gli scontri che contaminano le terre opulente da esso fecondate. Eccolo, il fiume, nel racconto di Minajev, uno dei tanti: «Mi ricordo un tempo, quando i cosacchi, terminato il periodo di servizio nell’Atamanskij, tornavano a casa loro. Il treno li riportava a scaglioni, coi loro effetti, i loro cavalli. Presso Voronej, dove si attraversava il Don per la prima volta, il macchinista che conduceva il treno rallentava più che poteva, sapendo quel che doveva seguire. Appena il treno s’inoltrava sul ponte, Dio mio, bisognava vedere! I cosacchi impazzivano addirittura “Il Don! Il nostro Don! Il placido Don! Padre nostro, padre che ci nutri! Hurraaaah!” e giù dai finestrini, attraverso l’intreccio delle aste di ferro, i berretti, i cappotti vecchi, gli sciarovari, le fodere, le camicie, ogni sorta di piccoli oggetti d’uso militare. Li regalavano al Don tornando dal servizio. E passato il treno li vedevi galleggiare sul fiume come cigni o fiori azzurri, i berretti degli atamanzi… Era un’usanza antica…».
Grande assente in quest’opera corale, che stigmatizza le atrocità della guerra, appare Dio (quando non si manifesta in qualche gesto di umana pietà), sostituito dalle tante verità fabbricate dai contendenti a proprio uso e consumo, incapaci però di dare un senso alla vita: è quanto accade al disorientato Grigorij, cui lo scontro fratricida ha strappato dal cuore il senso del Padre comune. Non così nell’opera di Bacchelli, che continuando a credere nel riscatto sempre possibile agli uomini di buona volontà non fa mai mancare una luce provvidenziale di manzoniana memoria alle alterne vicende dei suoi personaggi padani.
Per il suo capolavoro (tradotto in italiano da Garzanti negli anni Quaranta e mai più riedito) Šolochov ottenne il premio Nobel nel 1965, acclamato quasi come un novello Tolstoj, al cui realismo psicologico s’era indubbiamente ispirato (come dal canto suo aveva fatto lo stesso Bacchelli). Non mancarono, tuttavia, voci dubbiose circa la vera paternità del ciclo romanzesco. Riusciva infatti difficile immaginare che uno scrittore giovane e ancora inesperto (aveva pubblicato il primo volume della saga ad appena 23 anni, senza ancora aver finito gli studi) fosse riuscito a padroneggiare i materiali di un’opera così monumentale; come pure che un autore decisamente allineato, quale Šolochov fu nella maturità, avesse saputo rendere così egregiamente la visuale dei cosacchi separatisti e antisovietici. Dubbi alimentati dall’essere, i quattro volumi del Placido Don, qualitativamente di gran lunga superiori al resto della sua pur vasta produzione.
È un mistero – se di mistero si può parlare – ormai sepolto con lo scrittore, morto nel 1984 nella sua villa sulle rive di quel Don che continua a scorrere, incurante di certe polemiche.