Pizza per tutti
Allegria, compagnia, gioia di vivere, gusto irresistibile: in 120 anni la pizza Margherita ha conquistato il mondo.
La regina sorrise di fronte a quella “bandiera gastronomica” che spandeva nella stanza un’appetitosa fragranza di forno a legna e di olio d’oliva mediterranea. Spiccavano nel tondo fumante del piatto che le stava davanti, il verde del basilico, il bianco della mozzarella di bufala, il rosso del pomodoro. Tricolore di un’Italia che s’era unificata politicamente da pochi anni, con tante fatiche diplomatiche, molti ardori patriottici e un incalcolabile scorrimento di sangue; ma che già s’arrabattava fra le differenze culturali e sociali che avrebbero segnato il suo prossimo futuro.
Molto probabilmente la regina, che per onorare Napoli aveva voluto assaggiare nella sua reggia di Capodimonte un piatto tipico della cucina popolare, la mangiò come la mangiava il popolo, senza usare forchetta e coltello, ma divisa a spicchi portati alla bocca con le mani. Lasciandosi così invadere il palato da quel calore gustoso e sensuale. «Che bontà!», esclamò, oppure usò un’espressione sabauda molto più colorita. E da allora quella pizza, che era stata inventata e cucinata appositamente per lei, prese il suo nome: Margherita.
L’apprezzamento della regina è testimoniato da una lettera esposta nella pizzeria Brandi, a Napoli: firmata da Camillo Galli, Gran Capo dei servizi di tavola di casa Savoia, la lettera fu inviata a Raffaele Esposito Brandi, all’epoca ritenuto il più valente pizzaiolo della città, al quale Margherita di Savoia, regina d’Italia, aveva commissionato la specialità. Correva l’anno 1889: 120 anni fa. Da allora la pizza Margherita s’è diffusa nei cinque continenti, ed è stata consumata da milioni di persone, aristocratici e gente comune.
C’è ovviamente chi non è d’accordo con questa versione dei fatti. Alcuni affermano infatti che la pizza con pomodoro, mozzarella e basilico – emblema dell’arte culinaria partenopea – nacque decisamente prima, nel 1830, e prese il nome di margherita (con la m minuscola!) a partire dal 1849, dacché un tizio dotato d’estro poetico notò che la mozzarella fusa a pezzi ricordava la forma dei petali del sentimentale fiore di campo.
Patriottismo o poesia quindi, dietro al tondo più celebre del nostro stivale? Non approfondiamo le indagini: ci vergogniamo soltanto che queste due caratteristiche – poesia e patriottismo –, che hanno stimolato tante delle migliori risorse della nostra terra, oggi non siano sempre così effervescenti e vitali come potrebbero. Ci salva ancora (speriamo per molto tempo) la cucina.
Oltre a Napoli, comunque, molte città e paesi rivendicano la paternità della pizza. Trattandosi d’una particolare specie di pane o focaccia, si può presentare con una ricca gamma di forme e di varianti. Nel lontano Oriente sembra che la conoscessero già gli antichi cinesi, mentre in Occidente focacce schiacciate, lievitate e non lievitate, erano diffuse presso gli egizi, i greci e i romani.
Ma non c’è dubbio che la fortuna della pizza sia legata alla città che s’adagia tra il golfo e il Vesuvio. Perché Napoli scelse per la pizza la forma rotonda: emblema di perfezione sorridente, di pienezza solare, di gioia di vivere, che tende sempre un po’ alla rotondità e non ai cubi e ai rettangoli.
Un tondo che ti fa venire l’acquolina in bocca solo a guardarlo e ad odorarne il profumo. Ovviamente la pizza napoletana è di pasta morbida e sottile, contornata dai bordi alti del cornicione. Ma la diffusione della pizza creò una miriade di varianti: ci sono luoghi in cui la pizza tonda è fatta con una pasta molto sottile e più croccante rispetto alla classica napoletana. Ci sono pizze con ingredienti per soddisfare ogni gusto: dai sapori mediterranei, con pomodoro, aglio e origano, alla piemontese Nutella, fino a giungere a iperboli americaneggianti, con tanto di wurstel, patatine fritte e ketchup. Divenne, la pizza, un’alternativa anche alla colazione o alla merenda nella versione in teglia, messa in mostra nelle panetterie per essere venduta a peso; e s’impose pure come eccellente fast-food, nella variante di pizza al taglio.
Se le origini della pizza napoletana affondano nella storia antica tra Roma e Pompei, è però solamente verso l’inizio dell’Ottocento che questo cibo diventò uno dei piatti preferiti della cucina popolare partenopea. S’affermò a quell’epoca anche l’abitudine di gustarla nel locale dove veniva preparata e cotta.
Scoprivano, i napoletani, che la pizza – sigillo d’allegria – non è un alimento che si possa consumare in solitudine. Ha una vocazione collegiale, non quella monastica del panino o dell’hamburger, che si può trangugiare in piedi, al volo, o nell’assorta solitudine d’un bar, pur fra decine d’estranei.
Nacquero così a Napoli le prime pizzerie, antesignane di quelle moderne. Dove ci si trovava in tavolate di familiari, parenti e amici, ma sempre in caciarosa e festosa compagnia, avvolti dai profumi irresistibili che fuoriuscivano dal forno. Poi, appena arrivava fumante sulla tavola, ci s’azzittiva di colpo: perché da buona tradizione, la pizza va sempre mangiata subito, ben calda.
In epoca recente la pizza ha dimostrato un altro lato del suo carattere solare: una non trascurabile vocazione ecumenica. S’è infatti ben affiatata con la birra, bevanda prediletta dai popoli nordici. Tanto da formare ora, mediterranea pizza e “barbaro” boccale di birra, un sodalizio quasi inscalfibile.
Simbolo del tricolore italiano, emblema di poesia, gioia di vivere, pienezza solare, invidiataci da tutto il mondo per il suo gusto e il suo profumo… che non si possa cominciare almeno dalla pizza a trovare motivi per guardare con più serenità, nonostante le innegabili difficoltà d’una unità non ancora ben consumata, ai prossimi 150 anni della nostra Italia?