Più Unione europea in Europa!
In un certo senso, le elezioni europee del prossimo maggio saranno le prime vere elezioni "politiche" europee. Da quando abbiamo il Parlamento europeo elettivo, la percentuale dei votanti è andata scemando: si era partiti da più del 60 per cento del 1979 per arrivare a poco più del 40 per cento del 2009. L'intensità – e talvolta l'animosità – del dibattito sull'Europa al quale oggi stiamo assistendo, e che non ha precedenti nella storia dell'integrazione europea, potrà produrre una più elevata partecipazione al voto? È possibile, ma non è chiaro il senso che tale partecipazione assumerebbe: sembrerebbero prevalere, infatti, i giudizi critici sull'Europa attuale, e quindi è possibile l'ingresso nell'Europarlamento non solo di euroscettici, ma anche di veri e propri "eurodemolitori". Cerchiamo però di mantenere un minimo di lucidità, anche nella gravità della crisi che sconvolge il tessuto sociale europeo, e che coinvolge anzitutto i giovani senza lavoro.
Il problema, a ben guardare, non è l'Unione europea in quanto tale, ma le sue politiche in campo economico-monetario; anzi, direi che il vero nodo è l'assenza di una vera politica economica europea. L'Europa non soffre di una crisi di legittimità – le sue deboli istituzioni non costituiscono certo una sorta di Leviatano continentale – ma di una crisi di consenso. Si sente dire che l'Europa è solo un'unione economica e non politica: magari! L'unione economica implicherebbe, ad esempio, un unico ministro dell'economia, e non 18 (come nell'Eurozona) o 28 (come nel Consiglio economia e finanza). Abbiamo, oltre alla moneta unica, un mercato unico, le quattro libertà di circolazione (senz'altro delle merci e dei capitali, meno delle persone – specie nel caso dei lavoratori – e dei servizi).
Ma dov'è la politica economica unica? In situazioni di crisi, occorrerebbe mettere insieme le risorse per rilanciare su nuove basi lo sviluppo, non – ad esempio – farsi concorrenza con sistemi fiscali nazionali differenziati. Paradossalmente, tutte le risposte alle questioni più stringenti – come una politica europea dell'energia, dell'immigrazione, della ricerca – verrebbero da una maggiore integrazione, non dalla disintegrazione di ciò che abbiamo faticosamente costruito. I movimenti anti-europeisti fanno balenare come un toccasana il ritorno alle piccole patrie, l'uscita dall'euro. Ma già adesso l'Unione europea fa fatica a stare decentemente in un mondo di Paesi emergenti: e non parliamo solo di Brasile, India, Russia, Cina e Sudafrica ma, in prospettiva, anche di Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia.
Senza parlare delle crisi alle sue frontiere (Siria, Ucraina). Ed è un'ironia della storia che molte aree del pianeta guardino proprio all'Unione europea come a un superamento di distruttive e ataviche rivalità nazionali proprio quando noi siamo tentati di disfarci di un'Europa integrata o di fermare il processo di condivisione di sovranità. Perché di questo si tratta, non di "perdere" i brandelli di sovranità nazionale che ancora restano in piedi in un mondo globalizzato. Come afferma Bauman, il problema è che oggi il potere (macht) si è "liberato" della politica (politik): lo dimostra, ad esempio, lo strapotere dei mercati finanziari, che si farebbero beffe delle scozie, delle catalogne, delle repubbliche venete o genovesi ancor più di quanto già ora prescindano dagli staterelli pseudo-nazionali europei.
Le prossime elezioni europee saranno cruciali perché permetteranno di mettere in campo, finalmente, la "politica", e non solo le "politiche" settoriali europee. Qualunque cosa si pensi dell'Europa, vale la pena dibatterne, confrontarsi civilmente, anche da posizioni opposte; ma non commettiamo errori di cui la storia, ma soprattutto le donne e gli uomini del nostro continente, potrebbe un domani chiederci di pagare il conto. Non mi esalta particolarmente lo slogan "più Italia in Europa"; sarebbe invece il caso, ora, di più "Unione europea" in Europa!
(dal blog di Pasquale Ferrara)