Più lavoro, meno diritti
Una delle iniziative che il presidente eletto del Brasile, Jair Bolsonaro, promuoverà a partire dal prossimo primo gennaio, sarà una riforma della legislazione del mercato del lavoro. L’intenzione è quella di combattere la crisi economica che affligge il Paese dal lato della creazione di impiego, cercando di ridurre l’attuale tasso di disoccupazione che supera il 12 per cento. Il problema però è lo strumento di cui pensa avvalersi il presidente che, nel frattempo, ha cancellato il ministero del Lavoro dal suo organigramma, accorpandolo al dicastero dell’Economia. Un gesto alquanto eloquente. Per Bolsonaro la protezione dei diritti del lavoratore è eccessiva: una lamentela permanente degli imprenditori che il presidente ascolta e di cui condivide l’opinione. I lavoratori, afferma il presidente, dovranno scegliere tra «meno diritti e occupazione, oppure diritti pieni ma disoccupazione».
Sebbene la riforma ipotizzata non si conosca nei dettagli, il futuro titolare del dicastero economico, Paulo Guedes, ha fatto sapere che l’idea di fondo è di lasciare a ciascuno la scelta al momento di accettare un lavoro: o il sistema attuale, con le garanzie vigenti o un nuovo sistema parallelo, con una riduzione sostanziale delle garanzie giuridiche e sindacali. Per Bolsonaro si tratta di evitare il «tormento» che secondo lui – e secondo coloro che gli parlano all’orecchio – soffrono gli imprenditori che devono contribuire al fondo per il lavoro, al sistema pensionistico, ecc. In realtà, tali voci, non menzionano che, anche se le imposte alle imprese dovrebbe essere del 34%, attraverso trucchi fiscali e legali – spiegava tempo fa alla Deutche Welle Tathiante Piscitelli della Fondazione Getulio Vargas – le aziende pagano pochissime tasse. Il sistema tributario si regge sui consumi, mentre utili e dividendi ne sono completamente esenti per i cittadini locali. «Le famiglie povere spendono gran parte del loro reddito in beni di consumo, pertanto a loro si applicano proporzionalmente più tasse che a quanti guadagnano di più». Si comprende, pertanto, alcune delle ragioni che spiegano come il Brasile sia tra i Paesi al mondo con maggiori disuguaglianze. Gli strali presidenziali cadranno anche sull’Ispezione del lavoro, che –sostiene – produce «vittime di una minoranza, ma una minoranza molto attiva».
I problemi di una eventuale riforma di questo tipo sono di vario ordine. Sul piano legale, si creerà una situazione di diseguaglianza tra lavoratori sotto due diversi regimi contrattuali. Non è difficile ipotizzare appelli a ripetizione al Tribunale Costituzionale, dato che vari dei diritti che si pensa di cancellare sono protetti a livello della Carta. L’altro problema è di materia economica: la crisi attuale nel Brasile, infatti, non è determinata dal costo della mano d’opera, ma da una grande incertezza politica e dalla mancanza di investimenti pubblici e privati, che mantengono intorno al 70% la capacità produttiva effettiva. Attualmente, il livello di occupazione non dipende dal costo della mano d’opera, ma dal fatto che l’economia ha rallentato ed il mercato non consente una maggiore attività. Si può pensare, dunque, che esista una lettura ancora una volta viziata della realtà da parte di chi trova più facile identificare false colpe nelle situazioni di crisi, che cercare vie d’uscita che beneficino tutti.