Più forte del dolore

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Suona il campanello a casa di Renata. È dal parrucchiere, rispondono. Dal parr…?. Il resto rimane tra i denti: è normale per una donna di mezza età… E per Renata, che vive intensamente l’attimo che fugge. Una grave malattia le ha strappato il futuro ma non la serenità. Molti arrivano da lei pieni di pena e se ne vanno con la gioia nel cuore. Davanti al perché più crudele, trovano la risposta: quel continuare a vivere la vita normale di tutti i giorni, con riconoscenza e amore per chi è vicino. Raccontare la sofferenza? Quando ti avvicini in punta di piedi per condividere il dramma, trovi il contrario della morte. Il dolore accettato dilata la persona. Apre spazi e profondità, dove la forza della vita esprime tutta la sua grandezza. Diventa la via diretta che porta ad una gioia piena e contagiosa. Abbiamo scoperto – dicono i genitori di Araceli – che la felicità non è avere soldi, salute ecc. La troviamo nell’amore. Araceli non cammina, ma ci fa camminare; non si può alzare in piedi, ma ci solleva sempre. Se lei sorride, come potremmo noi scoraggiarci?. Araceli: venti anni vissuti senza l’uso delle gambe. Ultimamente, vive grazie alla dialisi. Eppure, è un inno di lode alla vita. Ho cercato di non chiudermi in me stessa – spiega in tutta semplicità -. In ogni dolore, riconosco quello di Gesù che ha sofferto in croce anche per me. Questo mi aiuta a vincere me stessa. Accogliere gli altri. Ciò che ho da dare è questa esperienza, la mia vita. E una certezza: con la sofferenza non si perde niente. Anzi, si guadagna la gioia che non passa e una grande libertà. Durante l’arco dell’esistenza quante volte si avvicenda la stagione rigida. Una fredda nevicata ti fa bar- ricare in casa. Però, paradossalmente cambia l’aspetto alle cose. Le trasforma in un capolavoro: attutisce i rumori. Pareggia gli spigoli. I rami tristi si fanno capillari d’argento. Il grigiore della strada non esiste più. Molte volte il dolore non si può evitare dalla vita personale o familiare, ma se lo accettiamo con amore, si trasforma in un seme fecondante. È quasi come se la vita stessa ricompensasse chi l’ha amata sotto quelle dure sembianze, svelando qualcosa di sé. Di quel mistero. E tutto prende significato… Ancora. Quando Enedina perse il marito improvvisamente, ancora giovane, era fuori di sé. Sentiva quella morte come una punizione e odiava tutti. Poi, l’affetto di un’amica l’ha aiutata a guardare alle cose positive che aveva: due brave ragazze, un lavoro, una casa. Ha cominciato ad accorgersi del dolore degli altri. Il suo cuore indurito si è sciolto. A scuola, dove lavora come bidella, un bambino era arrivato triste, irriconoscibile: aveva perso la mamma. Gli sono andata incontro – racconta -, e l’ho abbracciato come se fosse stato un figlio mio. E i suoi occhi si sono illuminati. La mattina quando spolveravo i banchi, sul suo mi soffermavo di più, come se al mio posto ci fosse la sua mamma. Ogni giorno, gli chiedevo come stava, se aveva mangiato, se aveva studiato. E lui mi raccontava del nonno novantenne, del papà che si era dovuto licenziare per accudirlo, del fratello che lavorava. Con mia grande gioia, è riuscito ad andare avanti negli studi fino al diploma. Oggi lavora ed è fidanzato. E continua a venirmi a trovare…. Il senso del dolore Cosimo Calò, cardiologo, ha vissuto tanti anni vicino ai malati, donando la sua esperienza anche in Africa. Tredici anni fa è morto sulla breccia. Per lui, erano pietre vive, i malati, nella costruzione dell’umanità . E spiegava: Non vorrei si pensasse che si debba fare una cultura della sofferenza. Basta quella che già c’è nel mondo. È importante però tener conto che è parte essenziale dell’identità dell’uomo su questa terra. Certamente, bisogna alleviare il male con tutte le energie di cui si dispone, ma è fondamentale capire e rispettare il linguaggio della sofferenza. Essa ci richiama i sentimenti e la vita dell’anima tanto quanto la fame e la sete ci richiamano le necessità del corpo. Riguardo ai dolori fisici – specifica Mario D’Astuto, medico chirurgo -, ce ne sono alcuni, per esempio, nei malati oncologici terminali che tolgono la serenità mentale, la coscienza di se stessi. Essi vanno alleviati. Resi combattibili. Ci sono tecniche farmacologiche, infiltrazioni nelle articolazioni, eccetera. Nell’alleviare la sofferenza, la relazione e l’ascolto sono importantissimi. Perché c’è un aspetto psicologico nel dolore fisico che l’accentua. Il dott. D’Astuto è stato primario all’Ospedale di Bazzano (Bologna). Adesso, è direttore sanitario provinciale di un’associazione di donatori di sangue. Vivo ed ho vissuto – racconta – tutte le gradazioni del dolore: disperazione, esasperazione, angoscia, incapacità di accettare. La sofferenza più atroce l’ha sperimentata quando ha perso la figlia di soli 19 anni. Ritrovarsi in quel Dio morto sulla croce, che ha gridato il suo dolore – dice – mi ha dato la forza di ricominciare. In passato, gli interrogativi filosofici vertevano sul perché della sofferenza nell’uomo. Oggi, invece, si è acuita un’insofferenza alla sofferenza. Si cerca di emarginarla più che di condividerla. E questo, rende più deboli, anziché più forti. Infatti il dolore – dice la professoressa Paola Binetti – per poter essere accettato richiede prima di tutto un’attribuzione di significati. Ed è possibile quando scatta una condivisione di valori e di affetti. La famiglia è il luogo privilegiato dove imparare a condividere il dolore. A dargli significato. L’amore reciproco sprigiona energie positive a cui tutti possono attingere. È l’esperienza di Elide e Gianni. Non c’è più niente da fare, si sentirono dire in un momento in cui a tutto pensavano, tranne che la vita di lei dovesse finire. Però, attimo dopo attimo, l’amore per i figli e per il marito l’ha spinta fuori dalla paura. Dall’avvilimento. Costretta a letto per tre settimane su quattro, altri hanno fatto quello che doveva fare lei. A volte mi sentivo inutile, ma continuavo ad amare. Quando mi fu regalato un fascio di fiori di campo, uno diverso dall’altro, pensai alla mia famiglia così. Non si distingueva il più bello. Si coglieva solo il profumo. Come l’amore tra noi. Questo è successo quattordici anni fa. Poi, quell’anno un po’ alla volta è passato. Le forze sono tornate e con esse le speranze di farcela. Una rete sociale La sofferenza è un’occasione per rispondere all’invito di amare con più consapevolezza e si può trasformare in uno strumento di bene sociale. Una famiglia che accoglie il dolore e si apre agli altri diventa il primo nodo di una rete di solidarietà. Di reciprocità. Sylvia e Raùl vivono a Tucuman, in Argentina. La nascita della prima figlia con la sindrome di Down inizialmente è stato un colpo. Ma, l’affetto, l’accoglienza, l’amore concreto per lei, ricambiato generosamente, ha fatto scoprire risorse impensate. E la vita è cambiata in meglio. In un orizzonte culturale che li guardava con sospetto, hanno dato sostegno a tanti che vivevano la loro stessa esperienza. E hanno fatto in modo che si attuasse la riforma educativa: adesso, non esistono più una scuola speciale per bambini disabili ed una normale, ma un’unica scuola inclusiva. Nella nostra società, i contenuti della vita sono rarefatti. Trascurati. Ci si preoccupa di avere il corpo sempre a posto, mentre poco conta se il contenuto interiore è insignificante e soffocato dall’egoismo. Spesso il dolore è una lama che squarcia la crosta della superficialità. E serve per trasformarci da individui a persone in relazione e consentire di fare la più grande scoperta di cui oggi c’è bisogno: quella dell’uomo, questo sconosciuto – scrive Giordani -. Essendo spesso la convivenza ridotta ad un rapporto di maschere. Per questo, Giulio, un giovane padre, dalla carriera promettente, interrotta da un ictus che l’ha paralizzato nel lato sinistro, può parlare di fortuna. Qui al mare vedo tante persone che hanno barche ed altro e fanno tante cose – scrive -. Sono fortunati… Ma la mia fortuna è proprio questa croce . E continua: Madre Teresa diceva che la vita è una sfida, affrontala. Mi piace tantissimo perché è un po’ il mio carattere. Chi soffre, insegna senza parole che la vita è un dono non scontato. D’un tratto scopriamo di non avere più le bende sugli occhi. Abbiamo imparato a valorizzare ogni gesto. A far venire a galla i valori fino ad allora tenuti nascosti. Senza i quali non si può essere pienamente soddisfatti. Il preludio La vita fa il suo decorso e per tutti arriva la stagione invernale: è quella fase che chiamano non più terza, ma quarta età. Essa va rispettata e amata perché ha un ruolo ideale prezioso. È preludio di un’esistenza nuova. È il legame tra ciò che c’è e la famiglia che non si vede, ma che è presente dentro la storia di ciascuno – dice Vittorino Andreoli -. Una storia che si proietta nel futuro. Caterina ha fatto di tutto per guadagnarsi l’affetto del nonno, conosciuto solo da poco tempo. Ed ha superato i pregiudizi della famiglia, che era stata abbandonata da lui. Va a trovarlo tutti i giorni al ricovero: Se fossi vecchia – racconta -, come desidererei che i miei nipoti venissero a trovarmi . Lo accontenta spellandogli l’arancia come vuole lui, lo accompagna per i corridoi a passeggiare, gli porta un po’ di rose del giardino perché diano odore di casa alla sua stanza. Un po’ alla volta a questo cercare di amare con la volontà è subentrato l’affetto del cuore. Ci capivamo. Io gli parlavo di me e lui mi raccontava tante cose della sua vita. Quando è morto, tra le lacrime, avevo la gioia di sapere che quel mare di solitudine e incomprensioni era stato colmato. UMORE DI MAMMA Intervista a Laura e al marito Franco Tangorra. Laura è moglie, madre di tre figli, autrice di due libri di grande successo: Solo una parentesi e Rumore di mamma (Mondadori). Una feroce malattia le ha tolto gesti, parole, futuro; ma la sua esistenza è diventata particolarmente luminosa. Per cosa dire grazie alla malattia? Mi costa molto rispondere a questa domanda, ma devo ammettere, mio malgrado, che una risposta c’è. È come se una mano enorme, forte e spietata, avesse afferrato un piccolo albero di Natale e avesse iniziato a scrollarlo con violenza. Una alla volta, le palline hanno cominciato a cadere sul pavimento senza fare rumore, e sui rami ne sono rimaste poche, solo le più belle, le più preziose. Quell’albero era la mia vita. Credo che questa malattia mi abbia dato la capacità di vedere i colori in un quadro in bianco e nero, di sentire profumo di fresco dove c’è solo odore di chiuso. Prepararsi alla sofferenza? Credo di no. Quando ci si trova a vivere una realtà dura, più grande di noi, si scopre di avere dentro una forza sconosciuta che ci permette di non impazzire, che ci dà la grinta per cercare di ricostruire sulle macerie. Nessuno può trovarla prima di vivere la sofferenza sulla propria pelle. Prepararsi vuol dire non dare per scontata la fortuna di avere la salute. È quasi un dovere. Molte persone che hanno una vita davanti non conoscono la speranza… Non so da dove nasca la speranza, se dalla fede o da un disperato bisogno di trovare un po’ di acqua nel deserto. Io sento di non essere sola mentre cammino su questa sabbia bollente, perché con me c’è qualcuno che mi sta vicino e mi consola, mi incoraggia a continuare perché l’acqua c’è anche se adesso non la vedo. Il rapporto con tuo marito come lo descrivi è molto bello: vero e forte. Puoi dirmi qualcosa di voi? Non è semplice racchiudere in poche parole una vita insieme, quasi 17 anni di matrimonio dopo 2 anni di fidanzamento. Abbiamo avuto momenti di difficoltà, come tutti e credo di poter dire che ne siamo venuti fuori più uniti. Da sempre la nostra caratteristica è stata quella di comprendere ciò che l’al- tro pensava solo con uno sguardo, una complicità silenziosa che oggi ha raggiunto livelli incredibili. Questo per me è vitale, dato che non posso più parlare. Eppure siamo molto diversi nel carattere, e spesso ci troviamo ad avere opinioni differenti soprattutto nei riguardi dei figli; ma ormai ci conosciamo. Quello che mi piace molto è il nostro modo di ridere dei nostri difetti, di sdrammatizzare, di non prendersi troppo sul serio, e questo credo ci aiuti molto. Franco, come comunicate tra voi? Ultimamente Laura non comunica più quasi niente con la voce. Si è però instaurata una forma di comunicazione non verbale fatta di presenza, di sorrisi. Ci si intende con un foglio sul quale c’è segnato l’alfabeto, andando a identificare le varie lettere una alla volta. E il computer che ha una tastiera virtuale che Laura muove coi movimenti del capo. Momenti di scoraggiamento? Quando si ha una famiglia, devi sempre fare i conti con gli equilibri di tutta la truppa. Potrei esser stanco, giù di corda, però devi fare il gioco con tutto l’equilibrio che non è soltanto il tuo individuale. Possono esserci dei momenti più o meno alti, altri un pochino più bassi, però una tensione costante ci spinge a mantenere gli umori il più positivi possibile. E poi c’è Laura: dovrebbe essere quella che è più a disagio di tutti. Invece riesce a dare la forza a tutti quanti, dimostrandoci semplicemente come si fa a essere mamma, anche se si hanno delle difficoltà, sopportando tutte le fatiche, senza farlo pesare su nessuno.

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