Più carceri o meno carcerati?

Mai così alto il numero dei detenuti in Italia. Ma quello del sovraffollamento non è l'unico problema. Occorre ripensare il sistema.

Siamo già a quota dieci a fine febbraio: questo è il numero dei suicidi registrati nelle carceri italiane. Quasi una triste conferma di quanto successo lo scorso anno con 72 casi, un record. Senza considerare i numerosi decessi classificati sotto la voce “per cause da accertare”, come testimoniano i dati del dossier “Morire di carcere”, elaborato dalla redazione di Ristretti orizzonti del carcere di Padova.

In venti anni la popolazione carceraria è più che raddoppiata anche se la criminalità è diminuita. Oltre 66 mila i detenuti a fronte dei 29 mila presenti nel 1990 e dei 44 mila posti disponibili. Mai raggiunto un numero così alto con una tendenza che ha visto un costante aumento dal ’99 in poi, eccezion fatta per il 2006, anno dell’indulto. Questa è l’istantanea che fotografa la situazione delle carceri nel nostro Paese. Sono ben dodici le regioni italiane “fuori legge”, con un numero di reclusi, cioè, ben al di sopra della capienza regolamentare: Lombardia, Sicilia, Campania, Lazio, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Marche, Toscana, Puglie, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta.

Siamo il Paese europeo col più alto numero di reclusi in attesa di giudizio: oltre il 40 per cento del totale, cioè 30.111 persone. E in Italia esistono ben 40 istituti mai utilizzati. Secondo il sito Gr.net (portale di informazione indipendente per il comparto sicurezza e difesa), così come secondo Antigone (associazione politico culturale “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”), sono infatti numerosi gli istituti di pena nuovi, o non ultimati, oppure già arredati, ma vuoti. Al Nord come al Sud, a Gela, Reggio Calabria, Rovigo, San Valentino (Pescara) o Revere (Mantova), mentre l’80 per cento dei 206 penitenziari ha più di un secolo di vita.

 

Misure alternative

Per fronteggiare una delle tante situazioni croniche che nel nostro Paese continuano ad essere chiamate emergenze, sembra che la soluzione più immediata e risolutiva sia costruire nuove carceri. Ed è ciò che propone, fra il resto, il ministro della Giustizia, Alfano.

Numerosi, però, i dubbi espressi al riguardo. «L’affollamento c’è adesso – commenta don Gino Rigoldi, cappellano dell’istituto penale per minorenni Beccaria di Milano – mentre, fino a oggi, il tempo medio per costruire e organizzare un carcere nuovo si aggira intorno ai dieci anni. Per le carceri già esistenti i tempi sono inferiori, ma è sempre una questione di diversi anni». Inoltre, continua il cappellano, «il carcere deve essere la risposta alle mafie, ma oggi, nelle nostre carceri ci sono principalmente persone di scarsa scolarità, poveri, persone emarginate. Il carcere è soprattutto la più numerosa aggregazione di “poveri cristi” che non la casa dei delinquenti».

Concorda la parlamentare radicale Rita Bernardini: «A questo fenomeno dobbiamo rispondere non con la moltiplicazione delle celle, ma con misure alternative alla detenzione: gli arresti domiciliari, dove possibile, l’estensione della “messa in prova” con affido ai servizi sociali per alcuni tipi di reato, l’affido a comunità terapeutiche e non al carcere per i tossicodipendenti che hanno commesso reati a motivo della loro condizione».

Anche il direttore del penitenziario di Padova invoca il ricorso alle stesse misure alternative e, ricordando il fatto che quasi la metà del totale dei reclusi sono in attesa di giudizio, sottolinea quanto sia necessario anche «modificare il sistema processuale» oltre a «incentivare la possibilità di scontare la pena nei Paesi di origine, considerato il fatto che qui abbiamo il 40 per cento di stranieri».

 

Morire di carcere

«In carcere ci sono tutte le condizioni per andare fuori di testa. Per farcela devi avere qualcosa per cui vale la pena vivere e sperare anche quando guardi i muri della tua cella», afferma un ergastolano recluso nel carcere Due Palazzi di Padova. Lui ha avuto la fortuna di trovarsi in una delle poche strutture in Italia dove è stato introdotto il lavoro come strumento di riscatto.

Un po’ meno fortunato Sergej, che sulle pagine di un quotidiano racconta: «In galera di questi tempi si vive da cani, si sta stretti, capita anche di dormire per terra, eppure farne prevalentemente una questione di spazi ha poco senso: oggi questo carcere distrugge nelle persone ogni progetto, ogni speranza, e un metro in più cambierebbe poco».

Ecco il nocciolo della questione. Non è solo una questione di spazi. Forse si tratta proprio di ripensare la funzione del carcere, di far sì che la pena non sia né la dimensione prevalente, né, tantomeno, l’unica, come il più delle volte, invece, risulta. Non si spiegherebbe diversamente l’aumento di aggressioni, atti di autolesionismo e suicidi.

Un quadro allarmante, dunque, quello che emerge da dietro le sbarre, che ha delle eccezioni laddove qualcuno si è preso la briga di far cambiare direzione alla vita di chi si trova sull’orlo del precipizio. Ne riparleremo.

 

 

Ripensare il sistema

 

A colloquio con padre Vittorio Trani, cappellano del carcere romano di Regina Coeli

 

Sovraffollamento, suicidi, morti sospette… Cosa succede nelle nostre carceri?

«Credo che nel 2010 andrebbe ripensata la modalità di intervento delle istituzioni verso il cittadino che viola la legge. Il fatto che uno venga privato della libertà, soprattutto quando nella fase preprocessuale esiste la possibilità che la persona dimostri di essere innocente, è molto grave. Secondo me bisognerebbe introdurre due aspetti: la possibilità di riparare al danno fatto e di rendersi utile lavorando. La carcerazione, così come è prevista adesso, è uno stare ad oziare 365 giorni l’anno, a spese delle Stato, peraltro molto elevate».

 

C’è forse da distinguere fra chi è autore di un reato minore e chi si è macchiato di colpe gravi…

«Questo è fondamentale. Bisogna distinguere fra i tipi di reati e anche fra chi manifesta una propensione a delinquere in maniera ripetitiva e chi lo ha fatto in modo casuale. Oggi invece il carcere sembra il toccasana di tutti problemi».

 

Cosa suggerisce?

«Ad esempio depenalizzare tanti reati che potrebbero avere una diversa risposta; ricorrere al carcere solo per i casi gravi e pericolosi; pensare che solo quando uno è stato riconosciuto colpevole finisca in carcere. Bisogna tenere presente che la carcerazione significa per la persona la morte dal punto di vista civile, umano, familiare, economico. Quando si viene indagati si apre una voragine e il detenuto vive una vicenda giudiziaria che pesa enormemente sulla sua vita».

 

Qual è stata la sua esperienza a diretto contatto con tante storie?

«Questi 32 anni sono stati per me una scuola e sa cosa ho imparato? A diventare estremamente prudente di fronte alle odissee degli uomini. Qui si ha la possibilità di accompagnare persone le cui vicende vengono sbandierate sui media per poi accorgersi magari nel tempo che la verità stava altrove; ci si accosta a drammi vissuti con tantissima sofferenza. Dopo queste esperienze si diventa molto attenti a non sbilanciarsi nei giudizi, si impara ad aspettare, a non condividere l’opinione comune creata dai media, a essere rispettosi del percorso delle persone che sono magari sotto l’occhio del ciclone, a guardarle con rispetto».

 

Perché da qualche parte il lavoro  riesce a entrare in carcere e in altre no? Da cosa dipende?

«Se si trovano un provveditore e un direttore aperti e impegnati sotto questo profilo, qualcuno che si dà da fare, qualche ditta del territorio molto sensibile, questo “matrimonio” si fa facilmente. Molto dipende dagli uomini. Noi abbiamo attualmente leggi che consentono di trovare spazi, però è necessario condividere l’impegno. Poi ci sono vincoli molto particolari legati a permessi necessari, per cui anche la burocrazia fa la sua parte».

 

Quali aspetti reputa importanti nella fase del reinserimento?

«Spesso si segue un percorso sbagliato, si mettono in moto figure professionali (psicologi, accompagnatori, assistenti sociali) che devono aiutare. In realtà poi non si riesce a creare la condizione basilare per un vero rientro: una possibilità di lavoro in modo che la persona cominci ad assaporare il senso dell’impegno, l’autonomia e impari a camminare con i suoi piedi».

 

Cosa possiamo fare?

«Agli amici che leggeranno ricorderei che dobbiamo confrontarci con quel passaggio del Vangelo “Ero carcerato e sei venuto a trovarmi”, che rimane anche nel 2010 uno dei percorsi della carità. Quindi ci vuole un’apertura di cuore verso una persona che comunque è in difficoltà, perché il carcere è l’ultimo capitolo di una vita in negativo. I cristiani possono e devono fare da battistrada di una sensibilità anche culturale verso questo mondo».

Aurora Nicosia

 

 

Ridare dignità

 

Volontari e anche ex detenuti accanto a chi sconta una pena e alle loro famiglie

 

Alfonso riesce a portare Dio dentro i corridoi bui del carcere. Riesce a vedere Dio nei galeotti, negli abbandonati, in chi a volte tenta anche di approfittarsi della generosità altrui. Da dodici anni Alfonso, insieme ad altri volontari del “Progetto sempre persona”, che fa riferimento a Famiglie Nuove, si dedica al reinserimento degli ex detenuti del carcere romano di Rebibbia. «Li andiamo a trovare in carcere. Siamo una ventina di volontari: professionisti, anche ex detenuti, membri della comunità Nuovi orizzonti. Visitiamo le loro famiglie. Stabiliamo dei rapporti che continuano anche dopo che sono usciti di prigione. Spesso è gente povera, anche di valori. Noi li andiamo a trovare e portiamo loro generi alimentari».

“Progetto sempre persona” «perché – come spiega Alfonso – anche se hanno commesso dei reati, anche se hanno sbagliato, i detenuti che incontro sono sempre persone. Cerco di condividere le loro sofferenze, le preoccupazioni che si portano dentro per le loro famiglie rimaste senza mezzi, insomma cerco di essere positivo. Col tempo i detenuti si aprono con noi, si stabilisce un rapporto sempre più di fiducia».

Alcune famiglie di ex detenuti sono ora entrate nel Progetto, diventando assistenti a loro volta. «Noi intanto lo diciamo subito – continua Alfonso – perché può capitare che ci chiedano tante cose: un lavoro, denaro, aiuto. Ma noi non abbiamo niente da dare di tutto questo: non veniamo a risolvere i problemi. Noi abbiamo solo un pacco con dei viveri e basta. È Gesù che pensa a tutto il resto».

Due sono le cose che il “Progetto sempre persona” offre ai suoi assistiti: la dignità e la felicità. Le uniche due cose che non si possono comprare da nessuna parte. «Col tempo i detenuti con cui siamo in contatto cambiano, perché si sentono amati. Dentro di loro nasce uno spirito nuovo. Li vedi disponibili all’altro. Chiedono che cosa possono fare per cambiare vita».

Alfonso non è proprio, come si direbbe, uno che si dà delle arie. «Io sono un poveraccio – dice –. Non ho studiato, però so una cosa: che l’amore cambia la vita, e le persone diventano felici. E per me la dignità è questa: quando una persona capisce da sé che l’importante è amare. Io sono l’ultimo, ma ho questa certezza: che il Vangelo vissuto è la strada giusta. È la felicità».

Alfonso conosce in carcere tanti detenuti. Uno lavorava nel campo della moda. «Aveva le tasche sempre piene di soldi – spiega – e aveva case, macchine di lusso, tutto quello che poteva desiderare; ma non era felice. Diceva sempre a sua moglie: “Chiedimi quello che vuoi e io te lo compro”. Lei voleva che suo marito l’accompagnasse in giardino per fare una passeggiata, e lui rispondeva sempre che non aveva tempo. “Adesso sono in carcere, sono divorziato: mia moglie aveva ragione. Ma voglio cambiare stile di vita”».

Tra i detenuti in contatto con Alfonso c’è anche Claudio. Quando l’ha conosciuto, era in cella di isolamento. Si stava lasciando morire; non si lavava più, aveva la barba e i capelli lunghi. Quando gli altri detenuti passavano davanti alla porta della sua cella, sputavano per terra. «Voleva morire – racconta –. “Che campo a fare?”, diceva. Nella vita fuori era un colonnello, e aveva anche la laurea in architettura. Gli ho detto che la vita può diventare interessante solo se si vive per fare qualcosa per il prossimo. E lui, allora, ha cominciato a salutare con un “buongiorno” tutti quelli che vedeva passare dallo spioncino. Poi è successo che due persone si sono fermate a parlare con lui. Era la prima volta che gli succedeva. Due settimane dopo l’ho incontrato di nuovo. Già si era ripreso, e il numero di quelli con cui parlava era aumentato. Adesso è agli arresti domiciliari, ha ricominciato a lavorare da casa, si è sposato e ha deciso di mettere in pratica i miei consigli. “Regali un sorriso – mi ha detto – e ne ricevi dieci”».

A raccontare la storia di Dennis è Salvatore, uno dei volontari del Progetto: «Dennis ha alle spalle una famiglia difficile. Abbandonato a tre anni d’età, da allora è stato ospitato in diverse case famiglia. Ora è sposato e ha un bambino di quattro anni. È uscito di prigione da poco, ma la moglie l’ha buttato fuori casa perché non riesce a trovare lavoro. Una volta ha dovuto dormire sul pianerottolo della casa di suo padre, che non lo ha fatto entrare.

«È difficile per un ex detenuto trovare un impiego, anche perché spesso non sanno come comportarsi nel mondo del lavoro. Io da anni mi portavo dentro il famoso “non giudicate per non essere giudicati”, finché non ho incontrato persone come Dennis, con le loro situazioni. Vorrei far vedere queste realtà anche a mia moglie, che pensa più ai suoi impegni, alla palestra, e che magari si arrabbia se mi dimentico di comprare il pane. Sono cose importanti, certo, ma dopo questa esperienza assumono un peso secondario. Un giorno siamo riusciti a far capire a Dennis che se voleva trovare lavoro doveva cercarselo da sé. Si è riconciliato con la moglie. Ha risposto ad un annuncio in cui si diceva che cercavano fotografi per un circo, a Torino. L’hanno accettato. In questo momento è in treno per Torino».

Ma il difficile, a volte, non è solo saper dire di sì. È anche più difficile saper come dire di no. «Non c’è qualcuno che si approfitta di voi?», chiedo. «Sì, succede. Tanti tendono proprio a questo – spiegano Alfonso e Salvatore –. Ma noi pensiamo: “È un momento così, si devono riprendere”. A volte devi far fare a loro dei piccoli passi. Anche se se ne approfittano, gli vuoi bene lo stesso».

Come dire: la grande pazienza, parafrasando l’illuminista Georges Buffon, non è altro che il genio.

 

Stefano Cavallo

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