Il più antico presepe di marmo

Le prime rappresentazioni scultoree della Natività e dell’Adorazione dei Magi nello stupendo sarcofago siracusano di Adelfìa

Siracusa, città seconda solo a Roma per l’estensione delle sue catacombe, possiede da oltre due secoli un gioiello che da esse proviene ma solo dal 2014, nel rinnovato interesse per l’arte paleocristiana che contraddistingue gli ultimi decenni, ha trovato degna collocazione in una apposita sala del Museo archeologico “Paolo Orsi”. È il sarcofago marmoreo rinvenuto il 12 luglio del 1872 in uno dei cubicoli delle catacombe di San Giovanni dall’allora direttore delle Antichità della Sicilia Francesco Saverio Cavallari. La notizia aveva fatto tale scalpore che il popolo, accorso in massa per ammirare il prezioso reperto, gli aveva poi fatto da festosa scorta fino in piazza del Duomo, dove all’epoca aveva sede il museo.

L’arca marmorea a forma di cassa, interamente scolpita nella fronte e nell’alzata del coperchio – una tipologia assai diffusa dopo la pace costantiniana, nell’ultimo venticinquennio del IV secolo d. C. – riporta in un fregio continuo, secondo un modello ereditato dai sarcofagi pagani, scene dell’Antico e del Nuovo Testamento fra loro mescolate senza apparente continuità narrativa, forse al solo scopo di sottolineare l’unità delle Scritture e la salvezza eterna: tema più che appropriato ad un sarcofago destinato ad ospitare le spoglie di un credente.

Sulla fronte si sviluppano tredici scene su due registri sovrapposti: nel primo, partendo da sinistra, Cristo-Logos consegna i simboli del lavoro ad Adamo ed Eva; seguono la negazione di Pietro, la guarigione dell’emorroissa, Mosè che riceve la legge, il sacrificio d’Isacco, la guarigione del cieco, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, la resurrezione del figlio della vedova di Naim. Nel registro inferiore, sempre procedendo da sinistra, troviamo: i tre giovani ebrei di Babilonia, l’omaggio dei Magi al Bambino che, in grembo alla Madre, tende le manine verso i doni; l’ingresso di Cristo in Gerusalemme, le nozze di Cana e il peccato originale. Entrambe le sequenze sono interrotte al centro da un medaglione a conchiglia. Questo simbolo di rinascita, secondo una tradizione pagana fatta propria anche dai cristiani, accoglie i busti di due sposi stretti in affettuoso abbraccio coniugale. Di entrambi i personaggi – di alto rango a giudicare da vesti, acconciature e ornamenti – conosciamo l’identità grazie all’iscrizione incisa nel cartiglio centrale del coperchio: sono Adelfìa (che significa “fratellanza”) e il conte Balerius, identificato da alcuni studiosi nel Valerio amico di Agostino cui il santo vescovo dedicò nel 419 il suo trattato Le nozze e la concupiscenza.

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Ma il fregio più interessante e originale si snoda lungo l’attico del coperchio e ai lati dell’iscrizione, sorretta da due putti alati. Nel settore destro si ripropone infatti l’adorazione dei Magi, associata stavolta a una vera e propria scena di presepe: tre personaggi venuti dall’Oriente recano doni al Bambino in fasce che giace su un cesto di vimini al riparo di una tettoia e viene scaldato dal bue e dall’asino. Ignorati dai Vangeli canonici, questi animali richiamerebbero invece le profezie di Isaia e Abacuc rielaborate dagli scritti apocrifi. Ancora, a destra della tettoia, appare la Vergine seduta su una roccia con accanto uno dei pastori ai quali era giunto l’annuncio della nascita del Cristo. Nel lato sinistro del coperchio si snoda la sequenza di più ardua interpretazione: chi vi ha visto quasi un piccolo ciclo mariano, ispirato ai testi apocrifi del Protovangelo di Giacomo, allo Pseudo Matteo e al Vangelo dell’Infanzia Armeno (Maria annunciata da un angelo privo di ali mentre attinge acqua ad una fonte; la preparazione al matrimonio della Madonna, assistita da due ancelle; la Vergine ammantata e assisa su un trono attorniato da altre donne); e chi invece un’allusione alla vita della defunta, improntata ad una particolare devozione verso la Madre di Dio, il cui dogma venne elaborato proprio negli anni Trenta di quello stesso IV secolo.

Non pochi quesiti ha suscitato questo straordinario reperto, che ancora reca tracce dell’antica policromia. Intanto non si spiega come mai un sarcofago con le immagini di due sposi abbia ospitato un’unica salma, quella della donna; come mai, nonostante la sua definizione di femina clarissima e il prezioso contenitore, peraltro rinvenuto inviolato, Adelfìa fosse totalmente priva di corredo; e cosa pensare del coperchio palesemente riutilizzato, come attestano le dimensioni minori rispetto all’arca e le scene dal tratto più artigianale in confronto alle altre?

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Ma oltre questi interrogativi destinati a rimanere insoluti, resta il fascino di una testimonianza di fede dei primi secoli cristiani che offre anche nei dettagli dell’Annunciazione, della Natività e dell’Adorazione dei Magi, rese con arcaica semplicità, le prime immagini scolpite del presepio. Ecco perché il sarcofago siracusano di Adelfìa occupa oggi un posto privilegiato nel nuovo settore del “Paolo Orsi” dedicato alla storia cristiana di Siracusa e della Sicilia, al centro di una rotonda che evoca le suggestive atmosfere catacombali dalle quali riemerse in quella lontana estate del 1879.

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