Pittura come luce
Mi sono sempre domandato quale fosse l’origine della luce particolare che si diffonde nelle opere di fra’ Giovanni da Fiesole, detto Beato Angelico. Tornando fra le mura del suo convento di San Marco e osservando le scene sacre nelle celle, sulle tavole e sui fogli miniati da lui o dagli allievi, la domanda mi si è riproposta. Questi è un pittore sfuggente. Appare facile, sembra di sapere molto su di lui – un frate artista come altri nel Rinascimento ed oltre – di vita virtuosa, considerato fra i maggiori esponenti della pittura quattrocentesca. Ma queste notizie, pur necessarie, non sembrano sufficienti a comprenderlo. Bisogna davvero fare la fatica di dimenticarsi e di dimenticare ciò che si pensa o si sa, e allora, dal silenzio interiore ed esteriore – per fortuna qui i turisti non sono invadenti – si alza una piccola luce a guidare il percorso. Aiuta con delle scoperte impreviste. Per esempio, quella dei suoi possibili autoritratti, naturalmente celati sotto le sembianze di un santo o di un frate do- menicano adorante il Crocifisso – sulla parete di fronte al corridoio delle celle -, o in quello, commovente per intensità di preghiera, di lui che contempla la Resurrezione. Oppure, nella Madonna delle ombre – posta in mezzo al corridoio – sotto le sembianze di san Domenico. La composizione è semplice, ordinata. Alle spalle di una parete misuratamente classica, sta la teoria di santi attorno alla Vergine che mostra il Bambino. Un lume radente dà gioia ai colori, alleggerisce le ombre, evidenzia i volti dei santi – diversi nella personalità spirituale l’uno dall’altro -. Fa brillare l’oro sulla nicchia dorata del trono, mentre Maria serenamente offre il bambino, bello, che ti guarda negli occhi: penetrante. Non è una luce solo naturale e nemmeno artificiale questa che avvolge di trasparenza, senza abbagliare, la scena. Possiede una purezza, una limpidità rara nella storia dell’arte. Potremmo dire che percorre i dipinti autografi delle celle – l’esile, metafisica Annunciata sotto un portico, ad esempio – dove le figure sono composte con una armonia interna e di rapporti che sembrano appartenere ad una diversa dimensione dell’esistere. Oppure la si ritrova nella sala al pianterreno, nelle due Deposizioni. La prima, trapassata da un brillìo di primavera che irrora colori, architetture e paesi; la seconda, un Compianto ove la sera avvolge un dolore composto, mentre le mura di una città si allontanano come una quinta verso l’orizzonte. Questo tipo di luce, nelle sue cadenze, fa da protagonista. Ed è immediato il ricordo del paradiso dantesco, immerso in una luce intellettuale piena d’amore . Essa nasce da una intelligenza ordinata e pulita, che si manifesta in amore verso il creato, tenero e forte. Ecco, forse è questa la qualità della luce di fra’ Giovanni, che sembra discendere, oltre che dalla spiritualità chiara e ordinata dei domenicani, dal prologo del Vangelo giovanneo: Venne nel mondo la luce, quella che illumina ogni uomo. Così che nella creazione tutto è contemplato sotto l’occhio di una resurrezione già avvenuta. Perciò, le opere di fra’ Giovanni parlano un linguaggio di cieli e terre nuove, dove anche il dolore è visto come momento necessario ma non definitivo. Di qui la superiore tranquillità dei suoi martiri, delle sue passioni, delle sue scene cruente. In qualunque genere, per- ché, come dice Vasari, fra’ Giovanni fu pittore e miniatore eccellentissimo . Non ha infatti importanza il formato o il supporto dei lavori, perché l’ispirazione fondamentale e la visuale rimangono identiche, quelle accennate sopra. Anzi, si rispondono fra loro, come si può verificare nel corso della rassegna. Un esempio. Il celebre codice Graduale 558 – ora a San Marco, ma proveniente dal convento di San Domenico a Fiesole, del decennio 1420-30 – vede una atmosfera profondamente mistica: il pittore, come sempre, si interessa ai volti, pura espressione dell’anima. L’Annunciata che guarda l’Eterno in scorcio sopra di lei, o L’Assunta immersa in una adorazione interiore, come contenesse un cielo nel cuore; La caduta di san Paolo in cui pochi elementi danno l’immagine di un dramma spirituale (stupendo il dettaglio delle vesti di un soldato in fuga, di cui non si vede il volto), splendono di una cromia vertiginosa di gialli, ocra, rossi, blu e oro. Il che parrebbe descrivere un mondo fantastico, come nel contemporaneo Gentile da Fabriano o nei miniatori tardogotici. Solo che in fra’ Giovanni spazi, forme e colori costituiscono il linguaggio della sua storia sacra, per nulla favolistica, in cui il mistero appare in immagini di corpi rivestiti di luce, di nature piene di respiro, di moti musicali. È una vita che sa essere meravigliosa quella che il frate contempla e propone ai fedeli e poi a tutti. Così al Graduale corrispondono i Tabernacoli, frutto del medesimo clima spirituale e artistico. Quello della Madonna della stella, delicato come una filigrana, dell’Annunciazione, ricco di decorazioni, o lo straordinario Giudizio finale che, nella modestia delle dimensioni, raggiunge una impaginazione grandiosa dell’ultimo giorno: un inno alla gioia. La luce luminosa – si perdoni il bisticcio – di fra’ Giovanni si sparge qui a tutto campo, fermandosi soltanto di fronte alla caverna infernale. Ma essa, per quanto realistica, non interessa al pittore. Permane in lui una serena fiducia sulla continuità della vita, sulla presenza del trascendente nel percorso umano, come sottolineano le danze degli spiriti beati. Di questa visione lui e la sua luce si fanno propagatori. Con la naturalezza di un evento che diffonde la gioia di essere al mondo. Essa arriva anche a noi, al suono incrinato del nostro tempo, come una bellezza che ci appartiene e a cui conviene sempre ritornare. Fra’ Giovanni, tra le mura di San Marco, aspetta. UN VERO BEATO Nato nel Mugello verso il 1400, Guido di Pietro, pittore e miniatore già nel 1417, poco dopo entra come fra’ Giovanni nel convento di San Domenico a Fiesole, di cui è vicario per due volte. Pittore ricercato, dal 1438 fino ad oltre il 1450 decora il convento fiorentino di San Marco con la sua bottega. Nel 1445 è a Roma dove dipinge in san Pietro e nella cappella di papa Nicola V. Inizia pure affreschi nel duomo di Orvieto, incompiuti. Dal 1451 è priore nel convento di Fiesole. Tornato a Roma, vi muore il 18 marzo 1455. Sepolto alla Minerva, è beatificato da papa Wojtyla nel 1982, confermando la lunga tradizione di una vita esemplare. La rassegna fiorentina attuale vede le miniature dell’artista – in particolare il Graduale 558- insieme ai lavori di Zanobi Strozzi, e in dialogo con tavole e tabernacoli dell’artista verso il 1430. La grande sorpresa è la continuità dello stile alto sia delle pagine miniate come delle tavole, per cui l’antica contrapposizione fra pittura e miniatura decade in favore dell’unica voce poetica.