Pirelli. Capitali cinesi e politica industriale italiana

Seconda parte dell’intervista all’economista Giuseppe Argiolas sulla cessione del controllo del gruppo industriale italiano alla ChemChina. Le regole della globalizzazione e il posto dell’Italia
tronchetti provera

Nella prima parte dell’intervista con il professor Giuseppe Argiolas abbiamo esaminato il quadro mondiale dove collocare la vicenda del passaggio della Pirelli sotto il controllo della CemChina, espressione del complesso industriale della Repubblica popolare cinese. Un’operazione complessa che potrà essere valutata compiutamente dopo l’estate, secondo Argiolas,    «quando l’operazione di offerta pubblica di acquisto sarà effettiva ed i tempi tecnici per la sua realizzazione saranno compiuti».

Quali valutazioni si possono fare al momento?

«Sono possibili alcune considerazioni di carattere generale. Si è detto dei processi di aggregazione. Intuitivamente si potrebbe pensare che con il fenomeno della globalizzazione dei mercati questa sia l’unica via che si sta percorrendo nelle politiche industriali degli Stati. In realtà ci sono anche segnali opposti, basti pensare alla Corea del Sud che decide di fare una legge per incoraggiare la nascita delle cooperative. I governanti di un Paese così avanti nell’industrializzazione mostrano la particolare lungimiranza di chi non vuole lasciare nelle mani di poche grandi imprese il futuro lavorativo dei propri cittadini e intende favorire il proliferare di tante realtà piccole ma sane che come le radici degli alberi, non hanno solo il compito di nutrirli, ma danno anche solidità al terreno, impedendone le frane».

Siamo davanti a politiche radicalmente diverse..

«È evidente che la politica industriale espansiva della Cina è sempre più una realtà. Il fatto poi che questo avvenga attraverso l’utilizzo delle sue imprese pubbliche evidenzia il ruolo attivo che il governo di Pechino intende giocare anche in Europa, già lo fa in Africa ed in America Latina. Questo porta la questione su un doppio binario, quello politico oltre che quello economico. Così mentre il Nuovo Mondo vola, l’antica Cina sfreccia, gli Stati Uniti corrono, il Vecchio Continente arranca, ripiegato su se stesso, incapace di svincolarsi da logiche antiche. L’Europa sembra troppo impegnata, in modo provinciale, a difendere interessi nazionali e ad affermare o contrastare una presunta leadership tedesca. O se si preferisce, una ipotetica supremazia liberista con qualche pennellata di solidarietà che appare piuttosto residuale, non esattamente quell’autentica integrazione e condivisione delle risorse considerata dai padri fondatori precondizione per assicurare una pace stabile e per costruire un destino comune.

La globalizzazione ha le sue regole ferree ma l’immagine non sembra quella di una progressiva svendita del patrimonio produttivo italiano? 

«In Italia un giorno affermiamo che dobbiamo attrarre capitali dall’estero e ci costerniamo quando non arrivano, per poi lamentarne la portata colonizzatrice quando vediamo che i nostri pezzi più pregiati finiscono in mani «straniere». Anche in questo caso, come dicevano gli antichi «la verità sta nel mezzo»: non possiamo certo pretendere che chi acquista venga da noi a comperare la macchina vecchia a peso d’oro. Ma non si può neanche stare a guardare senza fiatare quando si vende l’argenteria. Allora è necessario compiere delle scelte, impegnative, difficili, sulle quali non v’è certezza di successo. Ma su questo si misura la grandezza, la lungimiranza, di una classe dirigente (non solo politica)».

La Pirelli a suo giudizio come si è comportata?

 «Alla Pirelli va dato atto, numeri alla mano, che l’investimento in ricerca e sviluppo porta frutto, sia sul fronte della redditività che dell’appetibilità. Va altresì riconosciuto che è stata capace di fare scelte di responsabilità sociale (senza urlarle) sia nell’ambito della sostenibilità ambientale che della cura del luogo di lavoro, anche a costo di sostenere costi rilevanti che non hanno un ritorno immediato. Una realtà come questa può essere considerata orgogliosamente patrimonio della cultura economica italiana».

 Eppure anche questa vicenda non è l’esempio di una mancanza di fare sistema tra imprese e banche in Italia? 

«Qualche domanda sorge se per non perdere il lavoro di anni, nel momento del necessario salto di qualità dimensionale che richiede ingenti investimenti, non ci siano possibili partner italiani interessati o non si possano trovare altre formule. Ma per far questo occorrerebbe affrancarsi da un dibattito post-ideologico che appare più interessato a dimostrarsi «non-di-destra» o «non-di-sinistra», «non-liberisti» o «non-comunisti», additando gli altri come «contro i lavoratori» o «contro gli imprenditori». Dal canto loro, gran parte delle banche sembrano aver smarrito il senso della loro missione originaria di supporto all’industria, privilegiando forme di guadagno a breve termine, nascondendosi dietro frasi ad effetto apparentemente inconfutabili quali «anche le banche sono imprese e devono fare profitti», dimenticando che il modo, il come in cui ciò avviene non è indifferente rispetto all’obiettivo, al cosa».

Non c’è il rischio per l’Italia, che vanta ancora una grande capacità manifatturiera, di diventare sempre più marginale davanti a catene di comando che risalgono alle nuove sedi strategiche mondiali? Come immaginare un altro destino?

«Si dice, ed è vero, che siamo la seconda potenza manifatturiera in Europa, bene: quale ruolo vogliamo giocare nella politica industriale europea e, conseguentemente, in quella mondiale? La risposta a questa domanda non può essere solo politica, neanche solamente economica. Deve essere al tempo stesso politica ed economica, ma anche sociale, in una parola: civile. Si sente dire spesso che ci vogliono investimenti, magari in infrastrutture. È vero anche questo, ma non semplicemente attraverso immissioni di capitale monetario, e se si vuole che tali investimenti portino gli effetti sperati sono oggi più che mai necessari anche investimenti in «capitale sociale e relazionale». Investimenti in infrastrutture immateriali cioè in reti di relazioni di dialogo, fiducia e reciprocità grazie alle quali il tessuto sociale nel suo insieme si rivitalizzi, sia coeso e orientato al bene comune. Così anche l’economia («gestione della casa») potrà essere veramente civile, riscoprendo la propria vocazione al servizio della felicità pubblica, della casa comune nella città globale. Gli investitori in questo capitale così speciale, direi unico, non vanno cercati altrove».

 

–         L’economista Giuseppe Argiolas è autore, tra l’altro, di una recente pubblicazione edita da Città Nuova: “Il valore dei valori. La governance nell’impresa socialmente orientata”.

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