Pio XII un papa “non rimosso”

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Era il 1963, quando Rolf Hochhut rappresentava a Berlino un dramma, Il Vicario, in cui si accusava papa Pacelli del silenzio sul genocidio degli ebrei. Da allora , la leggenda nera su questo pontefice non si è più fermata. Generando una guerra di parole fra difensori e accusatori, tutt’altro che spenta, se è vero che una parte dell’ebraismo ha chiesto a papa Ratzinger la sospensione del processo di beatificazione pacelliano, mentre permane al Museo dell’Olocausto in Israele una scritta sotto il ritratto di Pio XII che il Vaticano giudica offensiva per la sua memoria. Eppure, a fine guerra, molti rappresentanti del popolo ebraico avevano ringraziato il pontefice, pubblicamente, dei suoi interventi in loro favore; ancora nel 1958, Golda Meir, primo ministro israeliano, ripeteva la sua gratitudine e nel 1967 lo scrittore e diplomatico Pinchas E. Lapide stimava in 860 mila gli ebrei salvati dall’intervento cattolico, proponendo che venisse piantata una foresta in onore di Pacelli in Israele… Viene da chiedersi il motivo di una simile presa di posizione con tro il solo Pio XII, accusato di non aver gridato in favore degli ebrei, trascurando tuttavia – è giusto sottolinearlo – di accennare alle responsabilità, in tal senso, di personaggi come Churchill, o Roosvelt o Stalin, che certo erano a conoscenza del genocidio e nulla fecero – a quanto pare – per impedirlo. Mentre si chiede a gran voce al Vaticano l’apertura degli archivi relativi al secondo conflitto mondiale – già iniziata da Paolo VI -, a stento si leva una richiesta a questo proposito nei riguardi di Londra o Washington o Mosca. Imbarazzante. Un accorto studioso, Alessandro Angelo Persico, ha appena dedicato un libro – Il caso Pio XII (Guerini e Associati, pp. 459) – al mezzo secolo di dibattiti sul pontefice. Passando in rassegna i contributi degli storici delle opposte tendenze – anche in seno al cattolicesimo – ha rilevato la difficoltà a tutt’oggi di avere una biografia autentica del personaggio, tanto la passione, nonostante tutto, prevale sulla volontà sincera di collocare quest’uomo nel suo tempo, per comprenderne l’operato. E se è vero che alcuni contributi, come quello di Andrea Riccardi nel recente L’inverno più lungo 1943-44 o di Philippe Chenaux nel suo Pio XII diplomatico e pastore, stanno risultando rilevanti per avvicinarsi a Pacelli, pure sembra di essere ancora agli inizi nel confrontarsi con la sua reale personalità. La mostra allestita in Vaticano dal Pontificio comitato di scienze storiche (fino al 6 gennaio, cat. Libreria Editrice Vaticana) non ha l’ambizione di spiegare tutto, ma vorrebbe essere un tentativo di far conoscere l’uomo, prima che il pontefice, nel suo percorso psicologico e storico; rispondendo così, indirettamente, alle polemiche tuttora in corso su di lui. Perché è ovvio che per poter dare un giudizio storico su un personaggio occorra studiarne ogni risvolto personale, rifuggendo dai presupposti ideologici o dalle speculazioni politiche che ne possono oscurare l’immagine. Come dimostrano i processi di revisione storica – sulla Resistenza o su Galileo, tanto per citare dei casi – in cui si nota che la storia, scritta dai vincitori, non sempre corrisponde alla realtà dei fatti. Com’era Eugenio Pacelli? Abituati alle immagini ieratiche, al cerimoniale barocco delle liturgie, ai racconti sul carattere autoritario e inaccessibile – indubitabile, accentuato negli ultimi anni di vita -, fa un certo effetto scoprire che da ragazzo è descritto come gentile, sensibile, taciturno, mentre egli si autodefinisce molto impaziente e mediocre. Il ragazzo, poi studente nel laico liceo Visconti, è un giovane alto, bruno, sportivo e musicofilo. Nulla di clericale in lui, anche se diventa prete nel 1899 e inizia a lavorare nella curia vaticana. Dove, colto ed efficiente, fa subito carriera, diventa nunzio in Baviera a quarant’anni. Una serie di foto lo ritrae con il mondo diplomatico, ma anche con gli artisti o mentre scrive a macchina. L’uomo che passerà per un conservatore, ama il progresso, la velocità, gli piace volare in aereo. Pacelli è uomo di rapporti, ha un cuore di pastore e lo esercita, con il suo stile riservato e gentile, sia visitando i prigionieri di guerra o gli operai delle miniere, sia nelle funzioni religiose. Fare il prete fra la gente è quello che desidera di più. Interessante infatti è una lettera inedita al fratello Francesco, quando sa che gli si prospetta il cardinalato in curia, in cui manifesta la sua avversione per un vita del genere e lo prega di aiutarlo a scampare al progetto. Invece, diventa segretario di Stato di Pio XI, col quale vive un’obbedienza intelligente: dice le proprie opinioni sempre, anche quando non coincidono con quelle del papa. Ma è lui che accentua la condanna del razzismo nell’enciclica antinazista Mit brennender sorge. Non si aspetta di diventare papa, tanto da prepararsi i bagagli per le ferie. Invece, gli tocca un’epoca durissima. La rassegna evidenzia largamente la sua attività a Roma – città dov’era nato (lo si sentiva nel privato parlare con una inflessione molto romana) -: foto, documenti, oggetti personali. Il papa che usa il rasoio elettrico, una benedizione, perché gli fa guadagnare tempo, che risparmia su tutto, porta tonache lise, ricicla le buste per gli appunti -: in fondo un uomo timido e semplice, che lavora fino all’esaurimento delle proprie forze, inabissandosi nel suo ruolo. Non si chiude al suo tempo. Inizia a raccogliere opere d’arte contemporanea – in cui lo seguirà poi Paolo VI -, favorisce gli studi sulla necropoli vaticana, parla di tutto, anche di sesso, con una franchezza insolita per un sacerdote dell’epoca. Ama il cinema, si rende conto dell’importanza dei media, organizza immensi raduni, sfrutta la televisione: in una prova prima della ripresa, lo si nota battere impazientemente il piede per terra per la fretta, e ciò getta uno spiraglio sullo sforzo di dominio sul suo carattere che invece appare all’esterno fermo come una icona. Questi, alcuni aspetti dell’ uomo. Importanti per capire le motivazioni, anche di ordine psicologico, del suo agire, sia durante che dopo la guerra. Si è insistito troppo, infatti, sulla condotta pacelliana negli anni del conflitto, dando una immagine riduttiva di un pontificato di quasi vent’anni. In effetti, Pio XII persegue la visione decisa di dare un’anima cristiana al mondo, e questo spiega sia la sua tensione all’essere super partes durante il conflitto, sia l’ostilità all’ideologia comunista, oltre che nazista, sia l’erigersi a maestro universale di fede e costumi nell’immediato dopoguerra, dando l’immagine di una chiesa monolitica intorno al sommo pastore. È questa fase del pontificato quella meno conosciuta dal grande pubblico e non ancora studiata in ogni risvolto, più o meno felice. Perché è indubbio che in Pio XII esisteva una concezione del papato alta e non ancora portata ad un dialogo aperto interecclesiale, come, a livello politico, un voler cristianizzare la società, non sempre attento alla giusta libertà dei laici cristiani, come dimostra il contrasto con De Gasperi… Certo, manca anche uno studio che approfondisca la dimensione mistica di questo uomo, la cui autentica spiritualità colpiva pure un avversario dichiarato come Ernesto Buonaiuti. Sicuramente, Pacelli è stato un personaggio carismatico, dalle molteplici facce, il cui stile o metodo di governo oggi risulta francamente superato. Ma resta un uomo tutto da scoprire. Forse una beatificazione è prematura, prima che gli animi si siano distesi – da una parte e dall’altra. Perché se è vero che non è giusto caricare sulle spalle di Pacelli l’orrore della Shoah, tacendo le responsabilità altrui, se è vero che forse è stato un vento massonico a far nascere la leggenda nera – secondo l’affermazione del gesuita padre Blet -, resta altrettanto vero che per una figura così nodale occorre il tempo e l’onestà degli studiosi e degli operatori mediatici per collocarla nella sua epoca, con i suoi limiti e la sua capacità profetica. Sono solo cinquant’anni dalla morte, ma sembrano secoli.

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