Pietro Perugino pittore “spaziale”

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Una lunga teoria di madonne, santi, angeli sullo sfondo di architetture placide e solenni o di paesaggi silenziosi. Una vena contemplativa, diremmo una specie di estasi mistica della pittura. Bella e facile. Col rischio di apparire scontata. Così che ancora oggi, per molti, Pietro Vannucci da Città della Pieve dove è nato verso il 1450 – il Perugino per tutti – è un grande, non un grandissimo, maestro del Quattrocento umbro, di cui Raffaello è stato l’allievo più celebrato; l’autore abbastanza ripetitivo di temi religiosi fin troppo devozionali, destinato ad una involuzione artistica inevitabile nel confronto con i giganti Leonardo e Michelangelo. Che equivoco. Ogni volta che si entra nella Cappella Sistina, e si tralascia la volta per distendere lo sguardo sulle pareti dei Quattrocentisti, all’affresco della Consegna delle chiavi, l’animo sente di respirare in modo ampio, riposante. Qualcosa dentro gli si dilata. Non è solo la bellezza scenografica – il tempio centrale, gli archi laterali e in primo piano, ben equilibrati, i due gruppi con Cristo e Pietro al centro -: impaginazione superba, teatro di grandezza epica. C’è qualcosa che è tipico di Perugino, e non possiedono i colleghi Botticelli e Ghirlandaio, e nemmeno Michelangelo. È una serenità interna, una poesia dello spirito pacificato, virtù rara e preziosa anche nell’arte. Osservando ancor meglio l’affresco, con le sue solide fisionomie di personaggi contemporanei e storici – e lui, Pietro, si ritrae insieme ai colleghi dell’impresa sistina – si avverte che questa poetica nasce da lontano, da una visione superiore della storia, passata o presente, fissata nell’armonia di colori e di gesti. Un sentimento che forse si condensa nel termine maestà. Un dominare cioè gli eventi senza lasciarsi da loro dominare, così che si può interpretarli senza passionalità, ma in un calmo equilibrio fra sensi, intelletto e fede. Non è forse questo l’ideale del rinascimento? Ecco allora lo spazio intorno alla sacra rappresentazione dilungarsi nel chiarore dell’orizzonte, dando la suggestione di un infinito, con altri cieli ed altri spazi, ed il sapore dell’eternità. Così che oggi, in cui il messaggio politico dell’affresco sfugge ai più – l’affermazione dell’autorità papale nella difficile storia ecclesiastica dell’epoca – rimane l’essenziale: il fascino di una vena, capace di trasformare la celebrazione in liricità, togliendo il peso alle figure e agli eventi grazie alla luce. Essa si espande, rendendo musicale, sinfonico l’alternarsi di pieni e di vuoti, l’associarsi e il distinguersi dei gruppi. Per Pietro infatti vivere è rimanere immersi in un spazio aperto, dove l’uomo è architettura fra le architetture, in un gioco di grazia e armonia. Quasi vent’anni dopo. Seduti fra i banchi di noce al Collegio del Cambio di Perugia, incontriamo il maestro ad un nuovo sviluppo. L’ambiente è raccolto. Pietro fa scorrere per le volte e le pareti una narrazione fresca, spontanea. I soggetti sono consueti all’epoca, scene cristiane e personificazioni delle virtù classiche. Pietro sembra accarezzarli col pennello, tanto è soave, e ridare loro la vita. Brillantezza del colore, armonia delle proporzioni, dolce fortezza delle espressioni, un accenno velato di malinconia: è ormai il suo stile. Ma, soffermandosi sulla Natività, ci sorprende un trepidare della natura, inconsueto, nuovo. Quell’indugiare della luce sul crepuscolo lontano, le ombre che scendono dai monti creano un’atmosfera che non è pulviscolare come in Leonardo o metastorica come in Raffaello: è una qualità emotiva dello spazio che, pur controllatissima, avvolge la scena, rivelando un sentimento tenero della vita, un voler sostare dello spirito che si direbbe virgiliano sulla natura. Lo spazio, parla, tanto da diventare quasi il soggetto reale del dipinto. Quanto ciò sia in Pietro radicato lo svela uno dei rari soggetti mitologici, l’Apollo e Dafni del Louvre. La tavola è piccola, ma trasporta dentro un universo, che si apre fra i due personaggi ambrati, vere colonne di una finestra su di un paese da sogno. E’ la natura umbra trasfigurata dalla fantasia? Pietro non è Giorgione, ed il suo paese col fiume, il castello e le macchie sa di precisione fiamminga. Pure, nella sua immobilità calma è racchiuso un amore così vibrante per il creato da evocare silenzi interminati e da commuovere per la sua verità. Pietro infatti unisce realtà e fantasia, mito e natura, in un atteggia- mento che è soprattutto di contemplazione. Non che non sia capace di intensa fisicità: l’autoritratto al Cambio, affrescato con orgogliosa sicurezza, o il Ritratto di Francesco delle Opere, che regge severo il cartiglio con la scritta Timete Deum, parlano un realismo sicuro e affermativo. Ma il maestro preferisce sublimare la realtà in una dimensione universale, in cui tutti si possano riconoscere. Idealizzazione tipica del rinascimento, che in Pietro si esprime con un vertice di musicalità espressiva. A Firenze, il Compianto sul Cristo morto – una delle tante variazioni sul tema della Pietà – non solo ha quell’aria molto dolce che entusiasmava i contemporanei, ma è uno sguardo, in presa diretta efficacissimo sul dolore. Ravvicinando i volti della madre, con la lacrima ferma sul ciglio a quello del Cristo abbandonato nella bella morte, ci si sente portati ad una tenerezza mista a speranza, che supera ogni possibile tristezza, mentre il coro degli astanti intorno, e lo squarcio paesistico commentano come un unico arco melodico. Questa capacità di melodizzare il sentimento, Perugino la mantiene intatta fino alla morte. Si entra qui nel primo ventennio del Cinquecento, quando il miglior maestro d’Italia – come ne scriveva il banchiere Agostino Chigi -, conteso dai regnanti, occupato in due grosse botteghe a Perugia e a Firenze, diventa sempre meno ricercato, quando non incompreso e fuori moda. Involuzione, che lo porta a sopravvivere per borghi e città dell’Umbria, ripetendo sempre più stancamente le medesime composizioni? Chiunque entri in San Francesco a Montefalco, all’oratorio dei Bianchi a Perugia o a Trevi, forse per caso, resterà deluso: nessuna decadenza, perché la freschezza del colore, la soavità del sentimento è quanto mai viva , pur nei temi consueti. Soprattutto è lo spazio ormai diventato protagonista assoluto: certi slarghi di vallate, certi paesaggi lacustri immersi tra il pallido e l’azzurro si sono fatti poesia della natura. Lontanissimo ormai dal mondo dei Grandi contemporanei, Pietro reagisce alla notte dell’ispirazione che certo la loro forte personalità gli ha procurato, ritornando all’essenziale della sua arte, là dov’era partito con le perugine Storie di san Bernardino. Un narrare gentile, ma sostenuto, un’aristocrazia più innata che acquisita in una terra dove l’armonia è spontanea, un amore per il silenzioso distacco da tutto. L’immenso Polittico di Perugia, sul 1512 – l’anno conclusivo delle Stanze e della Volta michelangiolesca – apre, oltre la dolcezza estenuata delle figure, paesaggi di una luminosità accecante. Il vecchio Pietro – che morrà di peste nel 1523 – ora dipinge, come e più di altre volte, il silenzio. Un poeta così aspetta qualcuno che dica tutta la sua grandezza e attualità. Forse, sei rassegne sono una buona occasione. FRA MOSTRE E ITINERARI Perugino, divin pittore – Galleria Nazionale; La fortuna e il mito – Rocca Paolina; La miniatura umbra del Rinascimento – monastero di San Pietro; Perugino e il paesaggio – Città della Pieve, palazzo della Corgna; La ceramica umbra al tempo del P. Deruta, Museo della ceramica; Perugino, pittore devozionale – Corciano, San Francesco. Itinerari sono previsti per Perugia e le città umbre, mentre dipinti e disegni sono protagonisti assoluti della mostra nel capoluogo.

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