Pietre antiche pietre vive
Davanti a me si stende Gerusalemme, la città vecchia, avvolta nella luce dorata del tramonto, mentre dai minareti i muezzin chiamano i fedeli di Muhammad alla preghiera. Centinaia di ebrei venuti da ogni parte si affollano al muro del pianto, mentre sulle pietre consunte del Santo Sepolcro si avvicendano in file interminabili cristiani di diverse chiese. Settimana Santa unica, questa, che vede la Pasqua celebrata contemporaneamente dalla Chiesa cattolica e da quella greca ortodossa in concomitanza con le festività ebraiche della Pesah. Sono qui insieme ad un gruppo di giovani dei Focolari provenienti dall’Europa e dall’Asia, che hanno deciso di recarsi a Gerusalemme proprio in questo momento, per rispondere all’appello rivolto ai pellegrini cristiani di tornare in Terra Santa. Camminiamo per la città vecchia e ci guardiamo, colmi di impressioni che a stento riusciamo a riordinare. Sono volti, case, colori e profumi, parole e silenzi, panorami e pietre. Le pietre calpestate da un uomo-Dio la cui presenza è più che mai viva e parlante quest’oggi, qui. Partecipiamo ad una processione da Betfage, minuscolo villaggio alle porte di Gerusalemme, dove il Maestro, a cavallo di un umile asino, era andato incontro alla sua ora, tra canti e danze simili a quelli che ci accompagnano. Oggi i pellegrini stranieri sono pochissimi, frenati dalle notizie di giornali e tivù. Ma il servizio di sicurezza è ferreo: ad ogni svolta, dai muretti di pietre ecco spuntare i soldati israeliani, armati di tutto punto. La processione si conclude nel cortile della chiesa di Sant’Anna, dove con brevi parole il patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbah, invita tutti alla riconciliazione, al servizio e all’amore per tutti, quale che sia la religione o la nazionalità. Mi vengono in mente le parole del papa: costruire ponti e non muri. Comunità in dialogo Gesù non ci ha lasciato niente di scritto, il suo messaggio l’ha impresso in modo vivo nei cuori di una comunità. Ogni comunità che si raduna in nome di Cristo è un libro vivente. È mons. Boulos Marcuzzo che parla, il vescovo di Nazareth. Gli incontri di questi giorni con alcune comunità cristiane di Terra Santa non possono che indurci a dargli ragione. Eravamo venuti forse con l’illusione di portare un po’ di solidarietà ed esprimere la nostra amicizia, ma abbiamo ricevuto molto di più da queste pietre vive della chiesa. I cristiani qui sono 180 mila, di varie chiese, il 2 per cento della popolazione, che conta 5 milioni e mezzo di ebrei e 3 milioni e mezzo di musulmani. Una delle priorità del nostro piano pastorale, denominata abbattere i muri, è lavorare per la riconciliazione, per la pace, per la giustizia – spiega mons. Marcuzzo -, allo scopo di aiutare la gente ad incontrarsi, ad accettarsi, a collaborare. A Rene, villaggio della Galilea alle porte di Nazareth, tutto ciò è una realtà. Il parroco latino, padre Yousef, ci racconta come tra membri e responsabili della chiese cristiane e della comunità musulmana ci sia collaborazione e solidarietà. Si partecipa alle feste e solennità gli uni degli altri, condividendo beni spirituali e materiali. Raccogliamo i frutti dell’amore lungimirante di un parroco di cinquant’anni fa – racconta padre Yousef -. Quel prete, ricevendo aiuti dall’occidente, in un tempo di estrema povertà, non aveva esitato a distribuirli a cristiani e musulmani senza distinzione. Vivere in pace Haifa, terza città di Israele, affacciata sul Mediterraneo, è un esempio positivo di convivenza pacifica tra ebrei e arabi. Vi incontriamo Annamaria, direttrice della scuola dei carmelitani, con più di 700 studenti arabi, di cui il 70 per cento cristiani e il 30 musulmani. Già da tempo come metodo didattico si vive la cosiddetta regola d’oro: Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te, presente in forme diverse nei testi sacri delle principali religioni. La convivenza tra gli studenti – mi spiega – è facilitata e si prega per la pace tra tutti i popoli, senza distinzione. Così portiamo avanti anche un progetto per il dialogo tra arabi ed ebrei. Il programma prevede incontri di conoscenza tra studenti, per poi arrivare alla convivenza pacifica. Ho scelto di cominciare con i piccoli della prima elementare: fanno amicizia attraverso giochi, lavori manuali, piccole rappresentazioni, imparando ad accettarsi l’un l’altro senza pregiudizi. Ma gli ostacoli non mancano. In effetti il giorno precedente alla data del primo incontro fra la classe dell’istituto cattolico e quella della scuola ebraica, un grave attentato sconvolge Haifa. I responsabili del progetto – ci racconta Annamaria – chiesero il mio parere, pensando che volessi rinunciare. Ma io ero decisa ad andare avanti: proprio in questi momenti difficili dobbiamo testimoniare che le cose si possono risolvere in maniera diversa e che la pace è possibile. Cristiani in tempi difficili Il viaggio prosegue, dalla Galilea alla Giudea. Si costeggia la valle del Giordano, che fa da confine con Siria e Giordania. Dopo i paesaggi ameni del lago di Tiberiade, ci impressiona attraversare, da Gerico alla città santa, il deserto di Giuda, pietroso e cosparso qua e là di accampamenti beduini, con i loro armenti. Tornati a Gerusalemme, proviamo ad entrare a Betlemme, pur sapendo che ci saranno lunghe attese al checkpoint. Per fortuna (o per miracolo) passiamo in fretta, come turisti. Alcune macchine vengono rimandate indietro e dei ragazzi, in piedi faccia al muro, aspettano sotto il sole, mentre leggiamo la paura anche negli occhi dei giovani soldati. I cristiani di Betlemme non possono recarsi a Gerusalemme, distante solo otto chilometri: molti non escono dalla città da ben due anni. Il muro in costruzione è ben visibile: fra poco potrebbe passare davanti alla scuola dei salesiani, che così dovrebbe chiudere e rimandare a casa gli insegnanti e i circa cento bambini che la frequentano. L’aspetto delle strade, con i negozi chiusi e i grandi alberghi vuoti, è desolante. La disoccupazione raggiunge il 65 per cento, e solo l’anno scorso sono emigrate 75 famiglie cristiane, cioè circa 600 persone. Un numero altissimo, se si pensa che i cristiani sono il 30 per cento degli abitanti. Ma non è rassegnazione quella che si legge sui volti della gente: il piccolo gruppo dei discepoli di Gesù è, ora come allora, un cuor solo ed un’anima sola, avendo tutto in comune. Con gli aiuti internazionali – racconta Renin – abbiamo fatto dei tagliandi per le famiglie: alimenti, medicine, soldi per operazioni chirurgiche (qui non esiste l’assistenza sanitaria). Per le medicine si deve andare a Gerusalemme, e questo comporta un permesso per il quale occorrono mesi. Vivere il Vangelo insieme con gli altri – dice Roselyn – mi dà una pace profonda, mi fa andare avanti, al di là anche della tristezza che a volte mi assale. Molti hanno vissuto momenti difficili, al momento della crisi di due anni fa. Maria abitava accanto alla Basilica della Natività e un giorno si è vista portare via il figlio, bendato e legato, malgrado non avesse fatto nulla. Pur gridando per l’angoscia, sentivo nell’anima la certezza nell’amore di Dio, che la vita del vangelo ha radicato in noi, sicura che nulla gli sarebbe accaduto. La sera me lo sono visto tornare: l’unico che non fosse stato malmenato e trattenuto in carcere. Mentre lascio la città, l’immagine della mangiatoia si confonde con quella dei tanti volti che ci hanno teso una mano, supplicandoci di comprare kefiah e rosari, o hanno aperto per noi negozi chiusi da mesi, dove presepi e madonne sono coperti da uno spesso strato di polvere. Mi porto via i sorrisi di questi volti arabi, e persino dei poliziotti palestinesi che, quasi increduli della nostra presenza, ci hanno detto: Grazie di essere venuti, abbiamo bisogno di voi. Vivere nell’insicurezza L’ebraismo non è una religione di princìpi, ma un’esperienza di Dio nella vita del popolo, dell’uomo, ci spiega il rabbino David Rosen accogliendoci in una sinagoga di Gerusalemme. Persona di grande cultura, è direttore internazionale delle relazioni interreligiose dell’American Jewish Committee, oltre che membro della commissione del Gran rabbinato di Israele per il dialogo con la Chiesa cattolica. Il rabbino Rosen ha voluto, nonostante le festività ebraiche, presentarci alcuni giovani universitari, impegnati nel dialogo interreligioso. Animano un gruppo di studenti ebrei e musulmani, che favorisce la conoscenza reciproca, sulla base della vita e dello studio dei testi sacri, evitando le discussioni politiche. Siamo ancora all’inizio – spiega Yossi -, e non neghiamo le difficoltà; ma crediamo che l’avvicinamento tra le religioni non potrà che portare del bene al nostro paese. Ci parlano semplicemente della loro vita quotidiana, segnata dall’insicurezza, dalla paura di salire sugli autobus, che li portano all’università di Gerusalemme. Emma aveva un amico che è morto in un attentato nel pullman che aveva preso. La vita di ognuno di loro è stata segnata dalla dura esperienza del servizio militare: tre anni per i ragazzi a 17 anni, due per le ragazze a 18. Ci illustrano sogni e punti di vista, con la voce a volte sicura, a volte velata dalla tristezza, poiché consapevoli che le prospettive in questo paese non sono rosee per nessuno. La separazione non può essere una soluzione reale. Il dialogo religioso tra ebrei e cristiani è già avviato da tempo, ma forse oggi abbiamo portato il nostro piccolo contributo all’amicizia e alla comprensione. Una terra anche cristiana Il nostro viaggio in Terra Santa si conclude in un franco dialogo con mons. Michel Sabbah, il primo patriarca palestinese della Chiesa cattolica di rito latino di Gerusalemme. Con lui cerchiamo di capire quale sia il senso del pellegrinaggio in Terra Santa in questo momento di paura. Non bisogna aver timore – ci spiega -. Bisogna venire qui, perché la presenza cristiana in questo paese ha bisogno di tutti i cristiani del mondo. Il pellegrino cristiano sui luoghi santi passa e prega, non fa la guerra, porta un messaggio di riconciliazione. A tutti gli abitanti di questa terra – ebrei, musulmani e cristiani -, dice loro che i luoghi santi non servono per ammazzarsi e odiarsi, ma per pregare ed incontrare Dio. Per questo, prosegue, bisogna venire a Gerusalemme, proprio perché i tempi sono difficili. E poi – prosegue sua beatitudine -, questa è terra cristiana. Una realtà che viene evidenziata dai pellegrini, e che altrimenti rischia di essere dimenticata nel conflitto politico. Nel mondo si parla di ebrei israeliani e di palestinesi, e non si sente parlare di Terra Santa cristiana. I pellegrini dunque ricordano al mondo e anche agli israeliani e ai palestinesi, che questa è ancora una terra cristiana. Non bisogna aver paura, perché la situazione in sé non comporta alcun rischio per i pellegrini. Ci sono morti ogni giorno, è vero, ci sono prigionieri, ci sono check-point e la vita è difficile. Ma tutto questo si limita a danneggiare chi è coinvolto direttamente nel conflitto. Nell’omelia di Pasqua mons. Sabbah aveva detto: I tempi difficili sono tempi di grazia, non di disperazione o di vendetta. Il male della nostra terra è il sangue sparso, è la persona umana disprezzata e sottoposta all’umiliazione e alla paura. È l’assedio, il muro di separazione, l’insicurezza. Tutti i piani presentati finora per dare sicurezza a questa terra sono privi della presenza di Dio, perché sono piani di morte; o di vita, ma a spese degli altri. Nessuno ha il diritto di reclamare la sua sicurezza a spese della dignità degli altri o della vita o della terra degli altri. La costatazione è evidente: umanamente parlando la pace è molto lontana. Bisogna pregare perché Dio intervenga – insiste il patriarca -, perché faccia un miracolo. È questo il messaggio ai nostri fedeli: i tempi sono difficili e come cristiani siamo chiamati a vivere una vocazione difficile. E sarà sempre difficile la nostra esistenza di cristiani in questa terra. Dobbiamo sopportare le difficoltà: la quotidianità, il pane, il lavoro, l’educazione. Alle famiglie che incontro ogni giorno malgrado tutto dico: sopportate, una pace ci sarà, quando lui vorrà. Noi aspettiamo non i piani dei politici, ma la volontà di Dio: lui darà la pace a tutti gli abitanti di questa terra, ebrei, musulmani e cristiani. Questo è il messaggio per noi: continuare a sperare, malgrado tutto, perché crediamo in Dio. Il nunzio a Gerusalemme, mons. Pietro Sambi, ci ha detto: Dopo l’Anno Santo 2000, cominciata la seconda intifada, i pellegrini sono scomparsi. E mentre i musulmani del mondo si sono molto ben organizzati per aiutare i musulmani, gli ebrei per aiutare gli ebrei di qui, non c’è stata la stessa spinta nel mondo cristiano. I cristiani di qui si sono sentiti abbandonati. La maggior parte di essi vivono dei servizi ai pellegrini, e ora molte famiglie sono al limite della sopravvivenza. È anche un aiuto materiale che si dà, oltre al sostegno spirituale.