Una pietà senza fine

Nelle sale dal 17 maggio Dogman di Matteo Garrone. La pellicola narra la storia di Marcello (Marcello Fonte) che divide le sue giornate tra il lavoro nel suo modesto salone di toelettatura per cani, l'amore per la figlia Sofia, e un ambiguo rapporto di sudditanza con Simoncino (Edoardo Pesce), un ex pugile che terrorizza l'intero quartiere. L'esito finale è inaspettato.    

Matteo Garrone non è solo un regista, ma un pittore “caravaggesco”. Tempo fa, entrando a casa sua per una intervista, ho notato infatti questo gusto e questa atmosfera nelle sue tele. Sembra passata anche nel suo cinema, da Primo amore a L’imbalsamatore a Gomorra ed ora a Dogman.  Favole nere, ambienti desolati, personaggi ruvidi e storie di dolore, di desolazione dove pare non aleggi alcuna forma di pietà. Ma nel film presentato a Cannes e ora in sala, la storia cupa che Garrone racconta ancora è pervasa da un sentimento di pietas grande e sotto certi aspetti lacrimosa, pur senza pianti. L’ingenuo Marcello che in un quartiere di emarginati senza nome e senza volto, lavora con i cani, è un piccolo uomo dagli occhi grandi e dolci, dal sorriso puro, un miracolo in una terra di nessuno, brutta e violenta. È amico di un gigante cattivo, Simone, che gli impone le sue scelte illegali con la forza bruta. Uno dei pochi legami di Marcello, oltre alla figlia Alida, una ragazzina matura e affezionata al padre. In questo ambiente senza tempo, dove mai batte il sole ma si scivola tra piogge e temprali e una umanità imbruttita, l’uomo lavora, vive una vita monotona di cui si accontenta. Simone lo coinvolge forzatamente in un furto: Marcello è leale, si autoaccusa  e finisce in carcere. Quando esce dopo un anno, da Simone nessun grazie, anzi minacce, sopraffazioni, percosse. Marcello diventa il luogo degli sfoghi di una umanità disumanizzata, un povero cristo che si porta addosso le viltà degli altri e la sporcizia fisica e morale di un mondo senza legge. Quest’uomo mite sente allora nascere dentro sè il desiderio di una ribellione, non della morte altrui, ma di una riscoperta della propria dignità, ed è disposto a rischiare anche la vita.

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Garrone concentra il film nel volto di Marcello (Marcello Fonte): ora mite e dolce, ora incantato, poi terrorizzato, desolato e tristissimo. Lui è l’uomo di oggi, abbandonato da tutti e da tutto, desideroso di amore e perseguitato dal non-amore. Perso dentro l’infinita tristezza della solitudine e della morte sotto il cielo grigio. Eppure, nel suo volto smarrito vibra quel senso di pietà con cui il regista lo avvolge, raccontandolo con un sentimento umano profondo, di compartecipazione vera, senza alcuna morbosità nelle scene crude, e in qualche misura lo trasfigura – specie nelle ultime scene – come un Ecce homo, un povero cristo che paga per tutti.

Il film rivela una densità tragica alta, una luminosità caravaggesca sfumata in chiaroscuri nebbiosi, in interni percorsi da una luce scarsa e violenta, ed in esterni atemporali. La presenza dei cani è come un “coro” tragico confuso che scandisce le scene dove si incontra e scontra questa umanità senza pace sopra cui Garrone stende uno sguardo non compiaciuto ed estetizzante, ma partecipe e sovente commosso.

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