Pietà del nostro tempo
Bisogna assistere e “vedere” il direttore sudcoreano Myung-Whun Chung con i complessi dell’Accademia Santa Cecilia “ricomporre” la musica di Rossini nello Stabat Mater.
Il musicista nel 1842 aveva 50 anni, era triste, angosciato, i successi della giovinezza erano svaniti. Il testo di Jacopone da Todi diventa allora nelle sue mani, o meglio nella sua fantasia, non una religiosità “operistica” come per tanto tempo e ancora si dice e si scrive, ma un canto piano e ricco sulle infinite sfumature del dolore amoroso.
Chung smorza i tempi, “piega” i virtuosismi vocali, li distende così che noi cogliamo non solo le sottigliezze bellissime della partitura, ma l’atmosfera di un Rossini che fa cantare il soprano (Mariangela Sicilia), il mezzosoprano (Chiara Amarù) , il basso (misuratissimo Gianluca Buratto) e il coro con slancio mitigato dalla sofferenza. L’orchestra ceciliana accompagna, colora, e se nell’Amen conclusivo esplode nel grido lancinante, all’inizio nello Stabat si fa preghiera sommessa che pare giungere da lontananze abissali.
Se alcuni brani o accompagnamenti hanno un indubbio sapore teatrale – Rossini è un operista, chiaro – non si tratta di teatro artificiale ma di sentimento autentico. Cioè il dolore, il virtuosismo vocale, l’amore del canto bello non sono effetti operistici: è l’anima sensibilissima alla bellezza pur nel dolore che il compositore esprime.
Perché il dolore passerà, resterà la luce piena, anche se ora è tenue. Chung equilibria tutto, facendo fuoriuscire da sé stesso la palpitazione estetica e spirituale al contempo. Raramente si è udito uno Stabat in cui il direttore per primo rivivesse spiritualmente in sè quei versi e li comunicasse ai complessi con tale delicato amore. Anche direttori famosi non sono riusciti a liberarsi dall’amore per gli effetti, da una certa retorica della sofferenza.
Non succede con Chung, segno di uno spessore musicale e spirituale notevole. Capace di darci un Rossini inquieto eppure desideroso di pace,di andare oltre il dolore.
Su di un altro linguaggio espressivo, ma di eguale intensità, si situano le nove lastre di vetro di Danilo Mauro Malatesta esposte nella chiesa di sant’Andrea al Celio.
Raffigurano una Pietà capovolta, nel senso che è un Cristo piagato a sorreggere Maria svenuta per eccesso di amore-dolore. L’invenzione dell’artista è straordinaria: la passione della Madre è rivissuta attraverso il Figlio.
Il tormento intimo che le ha fatto meritare “la palma del martirio” senza morire sotto la croce viene esaltato dallo sguardo tenero del Cristo ferito che la sorregge. Una passione infinita domina queste immagini, quella del Figlio che prende il posto della Madre e di lei che a sua volta prende quello del Cristo, in un interscambio amoroso.
Un dolore profondo e quieto che lo Stabat rossiniano potrebbe commentare o meglio accompagnare con la cadenza mesta del coro. Opera di rara sacralità, di estasi dolente ma misurata, rimane una esplorazione delicatissima del soprannaturale come le note di Rossini.