Piersanti Mattarella, chi era e a chi dava fastidio
Siciliano tenace, capace, lucido e ostinato propugnatore di una politica dalle “carte in regola“. Docente di Diritto privato all’Università di Palermo, proveniva dalle file dell’Azione Cattolica (in cui ricoprì anche incarichi nazionali), ebbe tra i suoi ispiratori Giorgio La Pira e poi si tuffò nell’agone dell’impegno politico nella Democrazia Cristiana. Nel 1964 fu eletto al Consiglio comunale di Palermo; per tre legislature (nel 1967, nel 1971 e nel 1976) venne eletto deputato all’Assemblea Regionale Siciliana e nelle tre giunte ricoprì anche l’incarico di assessore alla Presidenza con delega al Bilancio.
Il 9 febbraio 1978 – all’età di 42 anni – venne eletto dall’Ars presidente della Regione (con 77 voti su 100, il risultato più alto della storia dell’Assemblea siciliana), alla guida di una coalizione di centro-sinistra con l’appoggio esterno del Pci.
Il giorno dell’Epifania del 1980 stava per recarsi a Messa a bordo della sua Fiat 132, con la moglie e i due figlioletti, senza scorta (la rifiutava nei giorni festivi, desiderando che gli agenti stessero con le proprie famiglie). Si era appena messo al volante quando un commando di killer gli scaricò addosso, da meno di un metro di distanza, una raffica di proiettili (al torace, alla tempia e alla spalla). Il fratello Sergio, attuale presidente della Repubblica, fu il primo ad estrarlo dall’abitacolo, correndo, purtroppo senza speranza, all’Ospedale Santa Sofia.
Proprio quella mattina del 6 gennaio 1980 il Giornale di Sicilia era nelle edicole con un’intervista a Piersanti Mattarella che affermava come «nella società a diversi livelli, nella classe dirigente e non solo politica, ma pure economica e finanziaria, si affermano comportamenti individuali e collettivi che favoriscono la mafia».
Cosa fece
Piersanti Mattarella si era rivelato subito un grande presidente della Regione. Un innovatore autentico. E quegli spari di 40 anni fa infransero il sogno di una nuova Sicilia.
La sua onestà intellettuale si coniugò al coraggio nel portare avanti una profonda azione riformatrice delle istituzioni dell’Isola. A partire dalla struttura del governo regionale e degli apparati burocratici: Mattarella razionalizza le competenze degli assessorati, accentua la collegialità dell’azione della giunta, fissa criteri più severi per la nomina dei dirigenti pubblici. Per proseguire con l’approvazione di provvedimenti rivoluzionari: il contrasto alla disoccupazione, una nuova legge sugli appalti finalizzata a favorire trasparenza e imparzialità, la riduzione degli indici di edificabilità dei terreni agricoli, lo spostamento di alcuni oneri in capo ai costruttori e non più agli enti pubblici, l’istituzione di inchieste e l’aumento dei controlli per contrastare i potentati malavitosi. Si schiera pubblicamente contro la mafia e la commistione di Cosa Nostra con la politica.
A chi dava fastidio
Nel 1980 in Sicilia queste novità e prese di posizione non potevano essere ben viste da tutti: modificare lo “status quo” era una pericolosa provocazione per la mafia e per i suoi referenti nelle istituzioni e nella politica, per gli apparati e per i potentati economici.
Fu un delitto di mafia? E solo di mafia?
Così afferma il giornalista Giovanni Grasso (consigliere per la stampa e la comunicazione del presidente della Repubblica e direttore dell’ufficio stampa della Presidenza della Repubblica) in una intervista ad Interris: «Mattarella praticava l’antimafia dei fatti e non quella delle parole. La sua azione amministrativa stava incidendo profondamente nella macchina regionale, rendendo efficienti i meccanismi di funzionamento amministrativi, introducendo regole, controlli e criteri di massima trasparenza. Stava tagliando l’erba sotto i piedi della mafia, che trova terreno fertile proprio nelle inefficienze, nei ritardi, nelle procedure farraginose, nella discrezionalità delle scelte, nella mancanza di controlli. È chiaro che questo suo modo di operare confliggeva con gli interessi mafiosi. Ma credo che dietro il suo omicidio ci sia qualcosa di più, da individuare anche nella sua decisione di dar vita, in Sicilia, a un governo sostenuto dal Partito Comunista, in tempi ancora dominati dalla guerra fredda. Credo, insomma, che un filo comune leghi la morte di Piersanti a quella del suo maestro Aldo Moro».
Certo, quelli erano gli anni in cui Cosa Nostra si faceva sempre più violenta e arrogante; era la stagione delle morti eccellenti, dei martiri civili: da Boris Giuliano a Michele Reina, da Mario Francese a Cesare Terranova a Lenin Mancuso, da Pio La Torre a Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Ma erano anche gli anni in cui la Sicilia si stava rivelando un laboratorio politico di rilevanza nazionale. Il governo regionale presieduto da Piersanti Mattarella era a guida democristiana con il sostegno del Pci, nato proprio pochi giorni dopo il drammatico rapimento del segretario della Dc Aldo Moro. Una confidenza riportata da Leoluca Orlando, sindaco di Palermo, riferisce le parole di Piersanti Mattarella il giorno del rapimento di Moro: «Non si poteva colpire più in alto; si è mirato al cuore del nostro sistema democratico. È finita anche per me. È finita anche per noi».
La vicenda giudiziaria
È stata lunga, complessa e non definitiva. Come mandanti sono stati condannati all’ergastolo i boss della cupola e della commissione di Cosa nostra (Totò Riina, Michele Greco, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Francesco Madonia e Antonino Geraci). L’inchiesta, però, non è riuscita a identificare né i sicari né i presunti mandanti occulti esterni, e la pista del legame tra eversione nera e mafia è legata a un’arma che potrebbe essere stata usata in più delitti. Tant’è che nel 2018 la procura di Palermo ha riaperto l’inchiesta sull’omicidio.
È stata resa pubblica l’audizione di Giovanni Falcone del 3 novembre 1988, nella quale Falcone definisce l’indagine «estremamente complessa», dal momento che «si tratta di capire se e in quale misura la pista nera sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare altre saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche a partire da tempi assai lontani».
Dopo 40 anni restano gli interrogativi. Quel che è certo, è che un pezzo di storia e di giustizia è ancora da scrivere.