Pierluigi Bartolomei e la missione di Elis
Può un insegnante cambiare il mondo? Anche se ciò significa fare i conti con ragazzi problematici? Sì. E, soprattutto, può riaccendere in loro il desiderio di studiare e la voglia di realizzarsi nel lavoro. Èquello che accade alla scuola professionale Elis (Educazione Lavoro Istruzione Sport) di Roma voluta da san Giovanni XXIII e san Josemaría Escrivá.
Ad anno scolastico appena avviato, abbiamo intervistato il preside, Pierluigi Bartolomei, che insieme ad un gruppo di insegnanti si è prefissato una “missione speciale”: migliorare la sorte di studenti che vengono dalle periferie romane più estreme, in genere espulsi dalle scuole perché a rischio devianza, delinquenza, depressione, per dar loro non solo una formazione completa, ma anche l’abilitazione ad un mestiere. E per finire… una “famiglia”.
Chi è Pierluigi Bartolomei?
«Educatore per passione, manager per sopravvivenza, attore per sport, scrittore (ascoltando i giovani e le loro storie che affondano le radici nella sofferenza) per caso».
E padre di una famiglia numerosa. Quale sente essere la sua “missione”?
«Quando conobbi Emanuela non pensavamo assolutamente di sposarci e invece da quell’unione sono nati 5 figli (Teresa, Giovanni, Pietro, Agnese e Stefano). Ancora oggi non abbiamo che sguardi l’uno per l’altra! La missione che sento più vera è quella di agire nella vita, come agirebbe mio padre, che è stato per me un esempio di onestà e senso di responsabilità».
In che anno è divenuto preside della scuola Elis?
«Vi lavoro dal 1989. La storia di questo istituto è iniziata 50 anni fa e risale ad un desiderio di san Giovanni XXIII, che negli anni 60 affidò all’Opus Dei, quindi a san Josemaría Escrivá suo fondatore, la realizzazione di un’opera sociale per i giovani della periferia di Roma. Nasce così quest’Università del lavoro, un luogo in cui dall’operaio al dirigente viene insegnato il lavoro come servizio. Qualcosina è però cambiata rispetto a 50 anni fa… perché Elis ha esteso ora la sua azione educativa non solo al territorio italiano, ma anche all’estero, con diverse scuole e strutture».
Una realtà vasta, dunque, a favore della formazione. Cosa pensa della generazione odierna?
«Sui giovani, nessuna idea in particolare: anch’io al loro posto farei la stessa cosa. Mentre ho un’idea meno positiva degli adulti: non sono più credibili perché eccessivamente amici dei figli. Il padre o è una figura che evapora o si tende a mettere al suo posto colui che cambia i pannolini. La donna assume un ruolo troppo mascolino perché la famiglia è tutta sulle sue spalle, mentre l’uomo, che dovrebbe far volare i figli dicendo anche dei “no, non si può fare”, è messo all’angolo. In queste condizioni i figli crescono in maniera squilibrata e cercano modelli fuori casa. Fuggendo da casa, incontrano droga e alcool, con tutte le conseguenze che si possono ben immaginare».
In Elis avete casi di degrado familiare e povertà. La scuola aiuta questi ragazzi come agenzia formativa o come ricerca di lavoro?
«Entrambe le cose! I giovani vanno prima rimessi in piedi, poi devono muovere i primi passi con lo studio. Sono aiutati in ciò da docenti che illuminano i testi e spingono loro a desiderarli, cioè a desiderare di “sapere”, come fosse una bella donna. Una volta raggiunta una certa competenza i ragazzi si collocano da soli grazie agli stage».
Che percezione hanno gli studenti di Elis?
«Abbiamo posto recentemente loro – anche su vostra richiesta – alcune domande a riguardo. Un campione di studenti ha risposto che alla Elis si sente in famiglia, in una casa pulita ed ordinata, dove però (come nella vita) nessuno regala niente. Molti di loro, anziché stare sui banchi a studiare, preferirebbero forse andare in giro con gli amici, ma sono cresciuti tanto in questi anni. Sono stati responsabilizzati a sentire la scuola come fosse loro: anche perché da loro dipendono le varie officine. Sono loro che alzano le serrande, che rimettono gli attrezzi per bene nel magazzino, puliscono i pavimenti, svuotano i cestini. Se rompono qualcosa sanno che devono ripagarla. Ma sanno anche che, dietro la cattedra, c’è un professore sempre pronto ad ascoltare i loro problemi, a “farsi uno” con loro».
Come vivono i suoi figli la realtà del loro papà divenuto extralarge con tanti giovani bisognosi di cure ed attenzioni?
«Con apparente distrazione, ma con la sicurezza che apprezzano un papà che non mette mai le pantofole e che fa pochi discorsi perché non ne ha il tempo. Ogni tanto scopro che hanno le mie stesse passioni e che di nascosto scrivono, fanno teatro, cantano e fanno volontariato».
Quanto ha inciso la fede nelle sue scelte di vita?
«La fede è arrivata dopo un periodo di attivismo politico nell’estrema sinistra, per cui ha trovato un terreno totalmente arso. La fede una volta scoperta va tenuta in piedi con la preghiera personale senza distrarsi mai dalla meta e sapendo ricorrere alla confessione frequente se si cade, per poi ricominciare a correre di nuovo».