Piccole grandi cose italiane
Per esempio, Cannes, dove Sicilian Ghost Story di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza ha aperto la Semaine de la Critique.
Un lavoro di caratura internazionale e non solo per via del titolo in inglese. Un fatto orrendo di mafia, – l’assassinio del quindicenne figlio di un pentito nel 1996 – è la trama insistente in un racconto che è una favola d’amore adolescenziale dai contorni horror, magici e onirici. Il piccolo paese aggrappato sui monti presso un bosco, bello come un presepe nelle notti stellate, diventa metafora di una società che potrebbe mantenersi pulita ed è invece luogo di rimorsi, delitti e omertà. Ma non impedisce a Giuseppe e Luna di amarsi, soprattutto a lei di condividere da lontano la “passione dolorosa” del ragazzo rapito, le sue lacrime nascoste, le ferite, tanto da desiderare di morire con lui. L’amore puro fra ragazzi è qualcosa di bello e grande che supera la piccolezza dell’ambiente, la paura delle famiglie, l’omertà della polizia e della gente. Fatti di oggi, reazioni dei giovani d’oggi. Miscelando abilmente sogni e realtà, luoghi boscosi, cani rabbiosi e cavalli gentili, laghi, monti e nebbie sino ad una Senilunte magicamente vista dall’alto (la fotografia di Luca Bigazzi è splendida), i registi creano tensione e poesia, delicatezza e visione, terrore e dramma. Una fatalità molto “greca” sembra attraversare questo film introverso ma aperto, sognante e cupo dove le persone sembrano fantasmi più che creature umane. Ma rimane un inno alla vita e all’amore, nonostante la tragedia reale del 1996. I due ragazzi esordienti, Corinne Musallari e Lorenzo Curcio sono semplicemente perfetti. Il film scorre con semplicità, racconta lasciandoci sorpresi e talora sconvolti. Ci emoziona per il male e ci solleva per la capacità dei ragazzi di sognare, vicino a quel mare blu luminosissimo, sognato da Giuseppe prigioniero come libertà. Mentre Luna conosce per la prima volta il dolore, quello vero, che la rende forte e donna, ma non rinuncia assolutamente all’amore. Uno dei film ambientati in Sicilia che fanno dell’isola un luogo-metafora della vita umana tesa tra sogno e realtà, visione e oscurità.
Ecco poi My Italy di Bruno Colella, che esce, a quanto pare, in 50 copie. Quattro artisti stranieri vivono ed espongono nel nostro Paese: l’americano Mark Kostabi, pittore e disegnatore, lo scultore polacco Krysztof Bednarski, il pittore malese H.H.Lim e il videoartista danese Thorsten Kirchhoff, nomi prestigiosi nell’arte contemporanea. Le loro vite si incrociano da Roma attraverso tutta l’Italia, da Napoli a Spoleto, arrivando pure a Cannes e a New York. Ma i quattro viaggiano insieme ad una strana coppia, uno spregiudicato produttore cinematografico e il suo desolato segretario, insieme a piccoli e grandi personaggi, al critico Achille Bonito Oliva (dal vivo) in un percorso leggero e ironico. Ed è questa levità scherzosa, libera dalla pesantezza scambiata per comicità, a dare il tono al film, che diverte con la scanzonata presa in giro di luoghi e temi. Ci si mette una sfilza di attrici e attori con comparsate pungenti e brillanti, da Rocco Papaleo a Piera degli Esposti, da Sebastiano Somma a Nino Frassica a Luisa Ranieri e amici, in un cocktail napoletano-merdional-siculo gustoso. Della serie: si può fare con pochi mezzi e attori generosi un prodotto ricco di verve, spensierato ma non troppo, che sprizza simpatia. Ce n’è un gran bisogno.
Non decolla invece I peggiori di Vincenzo Alfieri, o meglio, decolla in modo eccessivo. La storiella molto napoletana dei fratelli sgangherati Massimo (Lino Guanciale) che fa il manovale sfaticato e Fabrizio (Vincenzo Alfieri) avvocato finito in archivio, potrebbe anche funzionare. I due gestiscono pure una vivace sorellina adolescente e sono controllati da un severa ed avvenente assistente sociale. Hanno bisogno di soldi: si inventano furti che smascherano i disonesti e, mascherati, diventano gli eroi del quartiere, con annessi e connessi di vario genere.
La trama è abbastanza scontata, ma utile per creare situazioni divertenti. Purtroppo, regista e attori pigiano troppo sul pedale del farsesco e del surreale, togliendo al racconto il ritmo scherzoso che dovrebbe smorzare e non appesantire le sequenze. È la misura che manca.