Piccole donne
Si è molto parlato di questo film, ulteriore adattamento di uno dei classici per l’infanzia più amati di sempre: Piccole donne, di Louisa May Alcott. Caratterizzato da un montaggio moderno, un’eccellente fotografia e ottime interpretazioni attoriali, il film della Gerwig ha il merito di distinguersi dalle precedenti versioni, per la scelta di esplorare più a fondo alcune delle parti del romanzo da sempre più sacrificate. In particolare, gli adattamenti avevano finora dato largo spazio all’infanzia delle sorelle, per poi affrettare la parte in cui diventano adulte. In questo film invece, si parte quasi dalla fine, per ripercorrere, in un’alternanza di presente (toni più freddi) e flashback (toni più caldi) come “le piccole donne crescono”. Questo dà modo alla regista/sceneggiatrice di sviluppare più a fondo alcune dinamiche, per esempio l’innamoramento tra il giovane Laurie e Amy, la solitudine di Jo e i problemi economici di Meg e del marito. Di fronte a un classico così amato e conosciuto, la sfida era proprio quella di raccontare non solo qualcosa che parlasse ancor di più alla contemporaneità, ma soprattutto che fosse “nuovo”, inesplorato. Certo, i puristi del libro forse avranno storto il naso di fronte ad alcune licenze artistiche, come per esempio la narrazione frammentaria o la scelta di un giovane attore per il ruolo del professor Bauer, uomo maturo e di esperienza, non certo coetaneo di Jo. Il loro rapporto è quello più sacrificato dal film. Originariamente è proprio il professore, con la sua onestà e schiettezza, a spingere Jo a scrivere qualcosa di più autentico e personale, ciò che diverrà poi il suo primo, vero, autentico romanzo, la storia della sua famiglia appunto, in memoria di Beth. Qui, invece, il ruolo dell’uomo è marginale e l’attrazione tra i due più epidermica.
Al di là di questo, il film ha il grande merito di andare in profondità su molti altri aspetti e di ritrarre i personaggi nelle loro diverse sfumature. Oltre al tema familiare, con la nostalgia per l’infanzia che passa, i rapporti che cambiano, i ruoli che evolvono, sono molto forti il tema della scrittura, come espressione di sé ed elaborazione dell’esperienza di vita, e il tema della donna nella società dell’epoca. Il pensiero comune è quello dell’arcigna zia March, interpretata in modo spassoso da Meryl Streep: una donna deve fare un buon matrimonio, a meno che non sia già ricca. Il suo destino, tanto nella realtà quanto nella finzione letteraria, risiede nel matrimonio, oppure nella morte. Jo (un’espressiva e talentuosa Saoirse Ronan), non si limita invece a pensare se stessa e le eroine delle sue storie all’interno di un matrimonio. Sogna l’indipendenza economica, la realizzazione di un proprio sogno professionale, una definizione di sé non subordinata a un uomo e ai suoi possedimenti. È una scelta coraggiosa e sofferta, che le porta anche molta solitudine. Sta per capitolare perché “vuole essere amata”, ma la mamma le ricorda che “non è la stessa cosa che amare”.
Il film non vuole certo sminuire l’istituzione matrimoniale, anzi. Alla fine, tutte le sorelle (eccetto Beth, appunto, che muore) troveranno il vero amore e i matrimoni rappresentati, primo tra tutti quello dei genitori March, sono esempi positivi, di amore e di sostegno reciproco. Il film vuole invece far riflettere su quanto fosse duro per una donna (e possa ancora esserlo), affermarsi professionalmente e in modo indipendente, alla pari di un uomo. Ciò non sostituisce il desiderio di crearsi una famiglia e di essere mogli e madri. Come dice Meg (una dolce Emma Watson) a Jo, “se i miei desideri sono diversi dai tuoi non significa che siano meno importanti”. Insomma, c’è spazio per molti “destini” e diverse ambizioni: ciò che conta è che non siano imposti o attesi dalla società, ma che siano scelti liberamente e con il cuore.