Una piccola pace per il Nagorno-Karabakh
Al reporter che conosce il Caucaso, farebbe immenso piacere in questo momento entrare nelle conversazioni misteriose tra il capo del Cremlino e il presidente turco. Perché l’accordo di pace tra Armenia e Azerbaijan, firmato per volere di Putin (certamente con l’avallo di Erdogan) sembra punire in modo eccessivo gli armeni, offrendo su un piatto d’oro metà del territorio del Nagorno-Karabakh agli azeri sostenuti dalle armi turche, mentre Mosca sembra non aver dato seguito all’accordo di assistenza militare con Yerevan.
In effetti, cosa prevede l’accordo di cessate-il-fuoco entrato in vigore tra il 9 e il 10 novembre? L’Azerbaijan conserva le parti del territorio del Nagorno-Karabakh riconquistate negli scontri di queste settimane − circa la metà del micro-Stato −. L’accordo mantiene il corridoio terrestre che lo collega all’Armenia, che sarà controllato da forze speciali russe, mentre è previsto un ritiro delle forze armene entro il primo dicembre, che tuttavia risulta ancora un po’ vago. Armenia e Azerbaijan hanno pure concordato di scambiarsi i rispettivi prigionieri e i cadaveri dei morti in battaglia.
Ricordiamo che la piccola sacca in territorio azero del Nagorno-Karabakh, abitato in larghissima maggioranza da armeni, ricevette in epoca sovietica lo status di regione autonoma. Crollato il muro di Berlino, di fronte al disfacimento dell’allora Unione Sovietica, scoppiò una guerra annunciata tra azeri e armeni, che portò alla dichiarazione di indipendenza dall’Azerbaijan di quel territorio, col nome di Repubblica dell’Artsakh, in realtà mai riconosciuta a livello internazionale. Da quel momento le ostilità si sono infiammate periodicamente, per una dozzina di volte, senza però mai durare più di qualche giorno. Ma questa volta l’Azerbaijan, forte di un’economia florida per via del petrolio e forte del sostegno incondizionato di Ankara che tende ad estendere il suo “califfato” in quell’Asia Centrale nella quale ha conservato relazioni e influenze, ha voluto colpire duro e in sei settimane ha riconquistato gran parte del territorio.
Mosca, che si definisce amica dei due contendenti, anche se all’Armenia la lega un trattato di assistenza militare, ha lasciato che Baku avanzasse grazie soprattutto ai droni di ultima generazione forniti sia da Ankara che dagli israeliani (sì, proprio loro), ma senza occupare tutto il Paesello caucasico − occupando comunque la località simbolica della vecchia capitale Shushi −, pensando così di riuscire ad accontentare le due parti. In realtà in Armenia si grida al tradimento, sono scoppiati incidenti sia a Yerevan che nella capitale del piccolo Stato, Stepanakert.
I due contendenti hanno evidentemente accolto diversamente la firma dell’accordo. Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan, col volto sconvolto dalla sofferenza, ha definito «incredibilmente doloroso sia per me che per il nostro popolo l’accordo di cessate il fuoco», mentre il presidente azero Ilham Aliyev ha detto che l’accordo «sarà vantaggioso sia per il popolo dell’Azerbaijan, sia per il popolo dell’Armenia e per tutti i popoli della regione».
Mai come questa volta il conflitto va inquadrato nel contesto internazionale. Come sottolinea l’Ispi, «l’Azerbaijan è fondamentale per la sicurezza energetica della Turchia ed è un importante investitore nella traballante economia turca. Le importazioni di gas dal Paese sono aumentate del 23% solo nella prima metà del 2020 e Socar, la compagnia petrolifera azera, è diventato il più grande investitore straniero in Turchia».
Ma la questione, oltre che economica, è soprattutto politica, ed è da inquadrare nelle complesse relazioni che intercorrono tra Mosca ed Ankara: se in Siria erano alleati (ricordiamo che il Gruppo di Soci, assieme a l’Iran, aveva dato una svolta alla guerra siriana), oggi si trovano su fronti opposti attorno alla città di Idlib, che i turchi cercano di mantenere sotto la loro influenza per tenere sotto controllo i curdi, mentre Putin continua a sostenere il presidente Assad. Contemporaneamente, in Libia Erdogan ha preso le parti di al-Serraj, mentre Putin resta, almeno di facciata, alleato di Haftar. Senza poi parlare della questione di Cipro e dei foraggi alla ricerca di petrolio e gas nel Mediterraneo orientale, nel quale la Turchia sta investendo risorse economiche e soprattutto militari, provocando di continuo Grecia e Unione europea.
L’accordo di cessate il fuoco in Nagorno-Karabakh, comunque, non è in nessun modo un accordo di pace, checché ne dica il presidente azero. Chi conosce la regione, sa bene che prima o poi gli scontri riprenderanno, anche se il grande fratello russo avrà mille occhi per mantenere lo status quo nel territorio conteso tra la capitale degli armeni, Stepanakert, e quella degli azeri, Shushi. Il piccolo Stato del Nagorno-Karabakh ha ora addirittura due capitali!