Picasso a Milano

Fino al  6 gennaio una rivisitazione dell’arte del maestro spagnolo con opere dal Museo Nazionale di Parigi. Il lungo percorso attraverso tele, sculture e disegni è un grido cosmico che non ha risposta, che non trova luce
Arlecchino di Picasso

Alla fine di un lungo percorso attraverso tele, sculture e disegni  del pittore spagnolo, si resta – almeno chi scrive – con una certezza. Qui siamo di fronte ad un artista che ha fatto della disperazione il tema fondamentale del suo lavoro e questo fin da giovane, a Parigi, quando, formidabile disegnatore trova subito la sua linea, il suo mondo ed il suo stile. Con un colore acido che predilige i tono violacei e il pallore dei personaggi, ritrae figure maschili  e femminili prive di luce. Anche quando presenta il figlio Paulo nei panni di Arlecchino, nel 1924, il bambino appare spaventato nel costume a scacchi: gli occhi grandi e neri- come quelli del padre – forse non hanno mai visto l’innocenza, o l’hanno perduta o qualcosa le impedisce di venire alla luce. E’ il volto di un bambino ma v’è dentro la tristezza di un uomo.

Questa tristezza della vita, questo buio dell’anima rivive anche nei momenti in apparenza più solari, nelle Figure sulla spiaggia, nella Bagnanti che giocano a palla. La sensualità mediterranea che impregna le tele non riesce a cauterizzare la sensazione acre di uno sforzo per sentirsi vivi, di una fatica per apparire quel che si vorrebbe essere. Picasso sembra nato già vissuto, già sperimentato di tutto. Per ciò si può permettere di distruggere il corpo e le cose, di spazzare via con l’esperienza cubista la forma di ciò che esiste, di frantumarla come nella Chitarra del 1913. È un modo per dire una amarezza totale, cioè che nulla dura, nemmeno la musica, nemmeno l’arte e nemmeno i sentimenti, se è vero che nelle scene di lui con la modella, ripetute e variate, tutto si riduce a corpi spezzati, a furie di colori impazziti.

Un fatalismo tragico incombe sulla vita come quello che viene espresso nelle corride e nelle immagini dei toreri e del toro. Quest’ultimo catalizza l’estro del pittore sino alla fine: è segno della virilità ma anche della morte. Basti osservare il Matador del 1970 per comprenderlo o Il bacio del 1969, fra le ultime opere: Picasso è rimasto sè stesso come all’inizio. Irrequieto, inquieto, disperatamente desideroso di mangiare la vita che gli sfugge. Per questo la divora in modo ossessivo come dimostrano le opere estreme dipinte per sé stesso in solitudine, con i consueti temi del senso,della morte, del grido.

Se si dovesse dire con una parola cos’è la pittura di Picasso si dovrebbe dire: è un grido, cosmico.Solo che quest’urlo in lui non ha risposta. Resta solo un urlo strozzato. Ma è questa l’anima dolorosissima del secolo ventesimo. Il buio di un dolore che  non ha risposta. Vedere questa mostra  fa perciò bene: nei colori ora diafani ora succosi ora splendenti c’è l’umanità che avrebbe voluto vivere al massimo ma non ha potuto. Le è mancata una luce.

Picasso è il pittore della non-luce. Anche se molte sue tele sono cariche di una vitalità quasi estraniante, quasi eccessiva. E di una luminosità o estiva o primaverile quanto mai intensa. Ma l’anima al di sotto non è felice. Picasso è l’uomo del nostro tempo che non riesce più a guardare oltre, ma solo raggomitolato nel suo corpo ad ascoltarne le pulsazioni vitali, con l’ombra presente del dissolvimento.

 

Picasso. Milano , Palazzo Reale. Fino al 6/1 (catalogo 24 Ore cultura)

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