Pfas, tra salute pubblica e interessi privati. Intervista a Giuseppe Ungherese di Greenpeace Italia

L’Italia è la nazione dove si registra il caso di contaminazione dagli inquinanti “eterni” più grave in Europa. A che punto è la situazione della bonifica? Si possono eliminare i Pfas dal ciclo produttivo? Quali sono gli ostacoli alla loro messa al bando per legge? Intervista al responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia
Azione attivisti Greenpeace a Venezia su Pfas Foto Francesco Alesi/Greenpeace.

Il movimento delle Mamme NoPfas è cresciuto rapidamente in Italia. Anna Maria Panarotto ne ha parlato davanti a papa Francesco durante l’incontro dell’Arena di pace a Verona.

Foto Rete Mamme da Nord a Sud

L’istanza elementare che chiede le bonifiche delle falde acquifere contaminate, non solo in Veneto, dalle sostanze inquinanti Pfas, assieme ad una normativa che le metta al bando nel ciclo produttivo, è una delle vertenze esposte il 18 giugno alla sala stampa della Camera dalla Rete mamme da Nord a Sud. Un atto unitario su scala nazionale compiuto da una serie di comitati sorti con l’intenzione di «proteggere l’ecosistema e le giovani generazioni».

Greenpeace è l’organizzazione non governativa ambientalista e pacifista, nota per la rigorosità dei dati oltre alla creatività delle sue azioni dirette e nonviolente; che fin dall’inizio ha sostenuto l’impegno per mettere al bando le sostanze perfluoroalchiliche, conosciute con la sigla Pfas, utilizzate largamente in diversi cicli produttivi anche se è ormai noto l’effetto dannoso di tali molecole sulla salute umana e sull’ambiente.

Giuseppe Ungherese foto Greenpeace

Cerchiamo di fare il punto della situazione in questa intervista a Giuseppe Ungherese, responsabile della Campagna inquinamento di Greenpeace Italia

Ormai il caso dell’inquinamento da Pfas è conclamato e non riguarda più solo alcuni territori del Veneto, legati al caso dell’inquinamento attribuito alla fabbrica Miteni. Che dimensioni ha il fenomeno secondo le vostre evidenze?
Alcune aree del Veneto sono teatro di uno dei casi più gravi di contaminazione dell’intero continente europeo, sia per persone coinvolte che per area inquinata. Una questione ancora irrisolta. Basti pensare che il sito Miteni continua a inquinare per via di una bonifica mai realizzata. A fianco a questo caso ben noto sta emergendo la gravità della contaminazione nell’alessandrino, in Piemonte.

Dove?
A Spinetta Marengo, frazione di Alessandria, dove ha sede l’unica produzione attiva di Pfas: la Solvay, oggi Syensqo. Si tratta di un’azienda che già nel 2007 era stata identificata dagli studiosi quale maggior fonte di inquinamento del bacino del fiume Po, che attraversa la più grande area agricola italiana. Ma oltre a questi due hot spot, in numerose altre regioni sono presenti numerose criticità. Recentemente abbiamo documentato livelli elevati in Toscana. Ma evidenti fenomeni di inquinamento sono un po’ ovunque soprattutto nelle regioni più industrializzate. In base ai nostri dati recenti i Pfas sono stati trovati in corsi d’acqua di 16 regioni italiane. E la situazione potrebbe essere ben peggiore perché nelle altre regioni (Puglia, Molise, Calabria e Sardegna) i controlli ambientali sono pressoché assenti.

È possibile procedere con la bonifica? A che costo? Esistono le risorse per intervenire?
Mettere in atto interventi di bonifica, soprattutto su vasta scala, è pressoché impossibile con le tecnologie attuali. Esistono varie tecnologie molto promettenti, che però finora sono state sempre sperimentate in ambienti confinati e poche volte su vaste aree geografiche. Anche l’incenerimento non è una soluzione perseguibile: molti dei Pfas necessitano di temperature superiori ai 1400 gradi per essere completamente decomposti. Gran parte degli impianti non raggiungono queste temperature. Nell’attesa di progressi sulle tecnologie di bonifica, è meglio indirizzare i nostri sforzi a monte evitando che l’inquinamento peggiori. Per questo motivo è urgente un bando all’uso e alla produzione di queste molecole.

Siete stati, infatti, tra i primi a far emergere il problema. A che punto è l’istanza da voi promossa al governo italiano di messa al bando di tali sostanze inquinanti?
Finora migliaia di persone hanno sottoscritto la nostra petizione per chiedere al governo una legge che vieti l’uso e la produzione di Pfas in Italia. Altre nazioni si stanno già muovendo in questa direzione, introducendo divieti. Basta guardare alla Francia e alla Danimarca, che nelle ultime settimane hanno varato alcuni provvedimenti efficaci per alcuni settori industriali. L’Italia, vista la gravità della contaminazione di alcuni territori, non può continuare a voltare le spalle alla cittadinanza, anteponendo il profitto di pochi a scapito della salute di tanti.

Cosa ha fatto finora la Regione Veneto e cosa potrebbe fare ancora?
La Regione Veneto si è trovata a dover fronteggiare una grande emergenza. Le iniziative messe in atto in questi anni non sono state del tutto sufficienti. È vero che gli acquedotti dell’area rossa sono stati messi in sicurezza e che, proprio in questi mesi, si stanno completando le nuove infrastrutture acquedottistiche che porteranno acqua pulita alla cittadinanza. Ma si tratta di iniziative non sufficienti. Il sito Miteni continua a inquinare a causa della mancata bonifica e oggi, a distanza di più di dieci anni, non abbiamo un quadro chiaro e esaustivo sulla contaminazione da Pfas prodotti in zona: tutto ciò è inaccettabile.

Ma è realisticamente possibile applicare una “direttiva zero Pfas”?
Certo. Oggi nella stragrande maggioranza dei settori industriali esistono alternative più sicure a queste molecole. Si stima che per solo l’8% delle applicazioni di fluoropolimeri, la fetta di mercato più rilevante dei Pfas, non ci siano ancora delle alternative. Altre nazioni stanno legiferando verso lo zero Pfas, non ci sono ragioni per cui l’Italia non possa farlo.

Emiciclo Parlamento europeo a Strasburgo Foto Ansa

Quali sono, a vostro parere, gli ostacoli che si frappongono ad una seria regolamentazione in materia su scala internazionale e a livello europeo?

Gli sforzi legislativi, sia a livello nazionale che comunitario, sono da tempo ostacolati da parte delle lobby industriali. Consultando i registri europei si è scoperto che tredici tra i più grandi produttori e utilizzatori di Pfas spendono, su tutte le questioni di loro interesse, tra i 18,6 e i 21,1 milioni di euro all’anno in attività di lobbying presso le istituzioni comunitarie. Alle loro dipendenze figurano almeno 72 lobbisti. Una notevole potenza di fuoco confermata da un ministro belga che al Parlamento europeo ha denunciato l’aggressivo lobbismo dell’industria. Si tratta di aziende che, senza scrupoli, vogliono continuare a salvaguardare i loro profitti a scapito della collettività. Tutto ciò non deve accadere. Ci auguriamo che la politica si ricordi del suo vero ruolo: tutelare la salute pubblica e difendere i beni comuni.

 

Qui il link per chi vuole conoscere la petizione di Grenpeace Zero Pfas

 

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