Pfas, inquinanti “eterni” da mettere al bando
Le chiacchiere stanno a zero. In Italia è emerso ormai da 10 anni il più grave caso in Europa di inquinamento delle falde acquifere da sostanze Pfas con epicentro in Veneto nella provincia di Vicenza.
Su Città Nuova abbiamo riportato più volte l’azione svolta con mitezza e ostinazione da un movimento spontaneo di famiglie, che si è dato il nome Mamme nopfas, che lotta per contrastare il danno da queste sostanze definite, a ragione, “inquinanti eterni”.
Una realtà di cittadinanza attiva che vede una prevalenza di donne in gran parte lontane dall’impegno nei movimenti ambientalisti presenti da tempo nel Veneto, regione passata in pochi anni da una condizione di migrazione per necessità ad uno stato di opulenza e di benessere economico misurato sull’accumulazione degli sghei ( i quattrini). Ma i decenni del dopoguerra hanno accumulato oltre ai profitti anche una quantità enorme di sostanze tossiche derivanti da un sistema produttivo che ha beneficiato di scarsi controlli nella concezione generale dell’assenza di un limite dettato dall’osservanza ragionevole del principio di precauzione. Resta in questo senso un caso esemplare l’avvelenamento industriale di porto Marghera collocato a ridosso del patrimonio universale e unico della città di Venezia.
Le mamme No Pfas hanno cercato in tutti i modi un confronto con le istituzioni, senza pregiudizi nei confronti di nessuno, nell’ovvia aspettativa di una risposta corale e convinta da parte della politica per contrastare e debellare un male comune, particolarmente aggressivo verso le giovani generazioni. Abbiamo documentato il presidio promosso davanti al ministero dell’Ambiente, che a Roma è collocato fuori dal centro storico, lungo la via Cristoforo Colombo strada a scorrimento veloce che non permette alcuna visibilità mediatica alle manifestazioni di protesta. E così le mamme pazienti hanno provato, in questi anni, a parlare con una sfilza di ministri. Da Gian Luca Galletti, ora presidente Ucid, a Sergio Costa, che ha dato loro udienza, e poi con Roberto Cingolani e infine in attesa di rapportarsi con l’attuale responsabile dell’ambiente Gilberto Pichetto Fratin, che come i suoi predecessori, più o meno disponibili, sa bene di toccare un argomento che chiede la presa di responsabilità dell’intero governo.
Non si tratta solo di bonificare un sito inquinato con soldi dello Stato, dato che la proprietà delle società si eclissano in questi casi, e neanche di investire nella sanità pubblica per assicurare i controlli medici e il monitoraggio sulla diffusione delle sostanze tossiche tra i residenti. La vera questione riguarda la scelta o meno di porre un freno all’inquinamento riducendo al minimo, cioè vicino allo zero, la presenza delle sostanze Pfas nei cicli produttivi.
È quello che è stato chiesto nella conferenza stampa che si è svolta presso la Camera dei Deputati mercoledì 25 maggio 2023 all’interno di una serie di iniziative che compongono la settimana di mobilitazione per la messa al bando dei Pfas, “sostanze chimiche per sempre”. Una istanza condivisa da 123 organizzazioni europee che chiedono «l’eliminazione graduale di tutti i Pfas utilizzati nei prodotti di consumo (ad esempio imballaggi alimentari, cosmetici, abbigliamento) nell’Unione Europea entro il 2025» e la «completa eliminazione di tutti i Pfas prodotti e utilizzati nell’UE entro il 2030».
L’iniziativa a Montecitorio si spiega in particolare con la mancata azione in questo senso da parte dell’Italia che finora, come sottolinea Greenpeace, non ha deciso di intervenire proprio «il nostro Paese, in alcune aree del Veneto, sia teatro del più grave caso di contaminazione nel continente europeo».
Il governo italiano è sollecitato perciò a collocarsi a fianco di Germania, Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia e Svezia che, recentemente «hanno chiesto agli organi comunitari di vietare l’uso e la produzione di queste sostanze», le quali, come ribadito, nella conferenza stampa alla Camera, sono «molecole indistruttibili che hanno invaso ogni angolo del globo: oltre alle acque, ai terreni, agli alimenti e all’aria, la contaminazione non risparmia le persone, minacciando non solo di chi vive nelle aree più contaminate ma anche chi risiede in zone lontane dalle fonti inquinanti».
La dinamica della diffusione dell’inquinamento è tale da non poter essere gestita come un caso locale, limitato al Veneto, come dimostrano i risultati di un’unità investigativa promossa in Lombardia da Greenpeace che, tramite accesso agli atti pubblici, è giunta a poter dire «con certezza che sono migliaia i cittadini lombardi che, dal 2018, hanno inconsapevolmente bevuto acqua contenente Pfas, usata anche per cucinare o irrigare campi e giardini. Ma non solo: non si può escludere che queste contaminazioni stiano andando avanti tuttora».
L’adozione delle misure richieste a tutela della salute pubblica si deve confrontare con le tesi dell’industria chimica, tra i soggetti molto attivi e presenti a livello europeo, che mirano a mettere in dubbio la solidità delle ricerche scientifiche prodotte dalle associazioni ambientaliste e, soprattutto, a bilanciare i diversi interessi in gioco in un settore strategico dell’industria a rischio di perdere competitività sui mercati.
È la tesi espressa anche nella memoria deposita da Confindustria nell’aprile 2022 in sede di audizione parlamentare giungendo a proporre di «potenziare, con il coinvolgimento del sistema universitario ed industriale, la ricerca scientifica su tutti gli aspetti del fenomeno (diffusione di utilizzo, effetti sulla salute, sostanze alternative, etc.)» nonché a «promuovere, stanziando risorse adeguate, la ricerca di molecole in grado di sostituire i Pfas».
Di opposto parere è invece Greenpeace, secondo tale associazione, ad esempio, esistono ormai da anni «nella maggior parte dei settori industriali, alternative più sicure ai Pfas» che continuano ad essere prodotti e usati dalle aziende «approfittando dell’assenza di leggi».
Sui danni di questa contaminazione Greenpeace cita i dati offerti dal Nordic Council of Ministers , (forum intergovernativo istituito dopo il trattato di Helsinki del 1975) secondo i quali «i costi sanitari dell’inazione per tutti i Paesi UE sono stati stimati in 52- 84 miliardi di euro l’anno».
Numeri che, di solito, non incidono sulle decisioni politiche come avviene al contrario davanti a calamità devastanti che portano a stanziare miliardi di euro per riparare i danni. È molto più difficile, infatti, convincere i governi ad investire per prevenire gli effetti disastrosi di un inquinamento silenzioso come quello da Pfas che non si vede se non dai risultati delle analisi cliniche che hanno fatto sobbalzare le mamme davanti a valori abnormi di sostanza chimiche nel sangue dei loro figli. È grazie ad associazioni di medici responsabili come quelli dell’Isde che è stato possibile certificare l’associazione tra «l’esposizione a queste sostanze e una a una serie di effetti negativi sulla salute, tra cui problemi alla tiroide, danni al fegato e al sistema immunitario, riduzione del peso alla nascita, obesità, diabete, elevati livelli di colesterolo e riduzione della risposta immunitaria ai vaccini, nonché ad alcune forme tumorali come il cancro al rene e ai testicoli».
Esiste quindi una grave contaminazione nell’ambiente da parte di sostanze chimiche artificiali e altamente persistenti che non può essere ignorata ma chede di essere affrontata apertamente discutendo l’adozione dei una legge nazionale che ne vieti l’uso e la produzione come proposta da altre Paesi europei.
Mentre la regolamentazione dell’aborto è diventato inevitabilmente un argomento divisivo, il contrasto contro l’inquinamento da Pfas permette di promuovere un’azione comune a favore della vita, dato che sono proprio «le persone più vulnerabili, come i bambini, le donne incinte e i feti in via di sviluppo a pagare il prezzo più elevato dell’inazione legislativa».
Qui il testo del manifesto BanPfas