“Peter Grimes” all’Opera di Roma

Il capolavoro di Britten trionfa a Roma, al Teatro dell’Opera. Attualità del dramma di un emarginato

Ci sono spettacoli che, appena finiti, verrebbe subito la voglia che ricominciassero, tanta è la loro bellezza. Nel caso della direzione centellinata e sempre appassionata di Michele Mariotti, la regia corale di una ispirata Deborah Warner e un cast in forma hanno lavorato in una perfetta simbiosi, dando vita appunto ad un momento di collaborazione artistica da ricordare.

La storia del pescatore Peter Grimes è la vicenda dolorosa di un uomo emarginato dal villaggio sulla costa orientale d’Inghilterra. Gli è morto un giovane mozzo e la gente, che non lo ama, sospetta di lui. L’unica consolazione per quest’uomo rude e bisognoso d’affetto è l’amicizia con la maestra del villaggio, Ellen, che lui vorrebbe sposare. Ma prima ha bisogno di soldi per costruire un futuro solido. Mentre la gente si ritrova nella taverna, sopraggiunge la tempesta. Grimes vi entra per rifugiarsi, ma la sua presenza non è gradita. Comunque, pochi amici gli stanno procurando un nuovo mozzo, un ragazzino preso dall’orfanatrofio. Alcuni amici consigliano a Peter di cambiare paese, ma lui ha qui le sue radici e rifiuta. La vicenda prosegue tra l’infuriare della tempesta: si accentua l’ostilità della gente per l’uomo solitario che man mano perderà la speranza di un futuro nella vita e deciderà di chiuderla nel mare.

Tre atti del 1945 con numerosi Interludi, recitativi cantabili e anche qualche resto di duetto o romanza, un melodiare “tonale” ricco però di citazioni “moderne”, conferiscono al tessuto musicale una pregnanza fascinosa, anche perché nell’orchestra dominano le strida acute dei violini, certe discese accorate dei violoncelli, certo ondeggiare marino dei bassi e l’inesorabile presenza dei fiati.

Scene essenziali, simboliche, costumi attuali, giochi visionari ‒ meraviglioso il “volo” del mozzo morto che invano Grimes tenta di afferrare, la barca rotta e sfascia onnipresente… ‒, luci drammaticamente oscillanti e un coro a tratti selvaggio a tratti devoto formano un connubio riuscito di musica, luce e azione teatralmente vivissimo. Nulla di superficiale o inutile nel rendere attuale il dramma dell’emarginazione, della fine della speranza a causa della cattiveria umana. Lasciano tuttavia in noi una profonda com-passione le interpretazioni notevoli di un grande protagonista come Allan Clayton, di una perfetta Sophie Bevan (Emma) e dell’intero cast insieme all’orchestra appassionata, felice di questa musica e del coro sorvegliatissimo. Da rivedere.

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