Peter Grabriel, passato presente
Ne abbiamo accennato sul numero scorso, ma un ritorno discografico atteso come quello di Peter Gabriel merita un commento più approfondito. E per molti motivi.
In primis perché questo nuovissimo, splendido Scratch My Back (Virgin) restituisce ai mercati, dopo una lunga assenza, uno degli artisti più carismatici e personali dell’era rock. In secondo luogo perché qui Gabriel dimostra che non sempre il riciclaggio sonoro è un escamotage di basso profilo o una furberia opportunistica. Terzo: perché l’album non è un progetto fine a sé stesso, ma solo l’incipit di un interscambio artistico che coinvolgerà in futuro un bel numero di colleghi.
Ciò premesso, addentriamoci nel complesso universo sonoro di questo disco. Il primo dato che salta all’orecchio sono gli arrangiamenti, retti da lussureggianti sonorità orchestrali che ammantano d’eleganza i ruvidi cliché delle cover rockettare: niente chitarre né batterie, ma la sobrietà avvolgente d’atmosfere intime, calde e rarefatte, che l’inconfondibile vocalità del Nostro rende ancor più suggestive.
L’altro dato saliente è la scelta dei brani e dei firmatari della dozzina di brani presenti: una trasversalità stilistica tutt’altro che disordinata, compattata anzi da un’affinità elettiva che s’incarna in ambienti sonori continuamente cangianti. Si parte con la celeberrima Heroes di David Bowie, e subito dopo ecco la re-invenzione di quel capolavoro etno-pop che fu The Boy in the Bubble di Paul Simon. E a seguire, una bella alternanza di citazioni di stelle sempiterne (tra i firmatari anche Neil Young e Lou Reed), di grandi avanguardisti del presente (dai Radiohead agli Arcade Fire), e di talentuosi di nicchia come gli Elbow o i Magnetic Fields. Insomma, un bel pinzimonio che solo un talento eclettico come quello del fondatore dei Genesis poteva rendere coerente ed omogeneo, senza passare per un sensazionalista iconoclasta, né frenarne l’impatto emozionale.