Il peso del passato

Due film molto diversi tra loro, L'altra metà della storia, e L'uomo di neve, inadagano i tempi trascorsi rivelando ferite mai cicatrizzate

Ricordare il tempo passato può essere gradevole o difficile. Piacevole se ciò che si è vissuto è stato sereno, difficile se si sono dimenticati errori, resistenze o egoismi che poi il tempo va rivelando nella loro fragilità e nelle ferite mai cicatrizzate. È il tema comune che indagano due film assai diversi come ambientazione, recitazione, genere.

L’altra metà della storia, di Ritesh Batra, tratto dal best-seller di Julian Barnes Il senso di una fine, vede l’anziano Tony (Jim Broadbent), pensionato e divorziato, alle prese con un diario che gli ha lasciato Adrian, il suo miglior amico dei tempi universitari, fidanzato con Veronica, la ragazza che anche lui amava. Il diario riporta alla memoria un passato doloroso (Adrian si era suicidato) che a Tony era scivolato addosso, fatto di grettezza, indifferenza per i sentimenti degli altri, ed azioni di cui mai s’era realmente pentito. L’incontro con Veronica, anziana di poche parole (Charlotte Rampling), fa emergere le fragilità nascoste, le colpe, le chiusure. Riuscirà il vecchio a svegliarsi dal suo egotismo esistenziale, ad accettare il rimorso e a pagarne le conseguenze?

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Il film drammatico procede per lunghi dialoghi mai banali, per primi piani sui volti degli attori, spiandone mosse e atteggiamenti, a rivelare nella precisione dei dettagli le minime sfumature psicologiche. Si tratta di un viaggio intorno ai sentimenti, spesso  più accennati che espressi, in un racconto che è sfumature dell’anima. Il male che l’indifferenza, la superficialità sono capaci di fare e poi di seppellire si rivela come il soggetto autentico della narrazione, dove delicatamente ma anche senza alcuna concessione pietistica, si fa venire alla luce il peso di azioni da accettare per liberarsene e rimanere nella verità. Armonioso nella fotografia e nella musica, il film è un trhiller dell’anima di cui svela, nella malinconia del tramonto della vita, gli angoli nascosti o volutamente dimenticati per riscrivere la vera storia della propria esistenza.

 

L’Uomo di neve, diretto da Tomas Alfredson, è un vero e proprio thriller, ambientato tra le nevi di una Oslo nebulosa, fredda, nel clima e nei rapporti. L’atmosfera misteriosa, incerta che la neve genera, coprendo le cose, è ciò che il film fa respirare sin dall’inizio, con il suicidio tra i ghiacci della madre di un ragazzino abbandonato dal padre.  Anni dopo un ignoto assassino uccide donne di famiglie con problemi lasciando sul luogo del rapimento un pupazzo di neve. Tocca ad Harry Dole (Michael Fassbender), un detective  con il debole per l’alcool fare le indagini, avendo ben pochi indizi: una sciarpa ritrovata sul pupazzo e un cellulare.

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Affiancato da una collega irrequieta, l’uomo lavora per scoprire l’omicida. Non mancano i colpi di scena su una caccia all’uomo che si fa intrigante e rende l’aria inquieta, dubbiosa come la fotografia nebbiosa documenta. Fassbender gioca il suo ruolo di tormentato con maestria, ma è il clima psicologico di persistente incertezza, di scoperta di verità che sembrano tali e poi invece non lo sono, a gettare l’ombra di una ansia costante nel racconto.

Si avverte il peso di un passato – di tutti, dall’assassino al detective all’ex moglie al figlio di Harry – che condiziona il comportamento, porta a delusioni, rancori, paure. Tutto ciò risulta evidente per gran parte del film, affidato alle sospensioni, ai sospetti, alle cacce tra le nevi, alle notti insonni del detective. Il trhiller – tratto dalla saga di Jo Nesbo – è tale sino ad un certo punto. Analizza infatti le reazioni della gente di fronte al passato, più o meno recente, più o meno doloroso, con le conseguenze  che tutto ciò comporta nella vita sociale e affettiva (il rapporto del detective col figlio).  Perciò la parte tipica del “genere” – lotte, rapimenti, uccisioni con un velo di horror – risulta efficace, ma il cuore del film è la liberazione dai fantasmi del passato e la voglia di recuperare la vita, se si riesce. Di qui il sentimento di sospensione e il fascino gelido tra le nevi norvegesi.

 

 

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