Permette, Alberto Sordi
Non racconta tutta la carriera di Alberto Sordi, la fiction andata in onda il 24 marzo su Rai1, dal titolo “Permette, Alberto Sordi”, ma il grande sforzo del giovane trasteverino per arrivare al successo e realizzare il suo sogno di diventare attore comico.
Un impegno faticoso, appassionato, anche duro e lungo più o meno diciassette anni: dal 1937 circa al 1954. Dal suo viaggio a Milano, quando era ancora giovanissimo, per studiare in Accademia, fino a “Un Americano a Roma” di Steno, con cui la fiction si chiude e che per Sordi fu il primo vero grande successo, lo spartiacque dopo il doppiaggio, la radio, il varietà, le comparse a Cinecittà e le prime esperienze non proprio entusiasmanti al cinema.
L’esperienza all’Accademia di recitazione a Milano finì male perché Alberto non accettava le regole della dizione, pensando, in qualche modo in anticipo sui tempi, che gli attori dovessero parlare la lingua della realtà. E allora diceva “guera” al posto di guerra perché era romano e a Roma si parlava così.
Non che non ne fosse capace: si rifiutava, e infatti quando vinse il provino per doppiare Oliver Hardy, anche lì giovanissimo, nemmeno ventenne, quell’accento seppe farlo sparire e grazie a quell’incarico iniziò a lavorare a teatro, conoscendo, tra gli altri, Aldo Fabrizi e Mario Mattoli.
Ci sono in sostanza tutti i passaggi fondamentali della corsa di Alberto Sordi verso la realizzazione professionale, nella fiction diretta da Luca Manfredi e interpretata da Edoardo Pesce con una costruzione mimetica ma misurata del personaggio.
E non era facile sopravvivere a un ruolo così delicato: il rischio di rimanere imprigionati nella caricatura era altissimo, così come quello di allontanarsi troppo, proprio per questa paura, dalle inconfondibili mosse e movenze del personaggio. Forse alcune sfumature di sceneggiatura non sono perfette, per esempio Sordi non venne mai cacciato dal set di “Scipione l’Africano” (nel 1937), come si vede nella fiction, perché disse una battuta che non doveva dire.
Accadde, invece, nel successivo “Il Feroce Saladino” e allora può darsi che gli autori abbiano voluto sintetizzare, ma a parte questo e qualche altro dettaglio personale e relativo ai personaggi di contorno, il percorso artistico del protagonista è in linea di massima rispettato.
Così come sono presenti tutte le persone che gli furono accanto in quegli anni: dai familiari (i genitori, il fratello e le due sorelle) a Vittorio De Sica, che nel 1951 era già il grande maestro neorealista e che decise di produrre un film che portava sul grande schermo il personaggio radiofonico del “Compagnuccio della parrocchietta“. Il film fu Mamma mia che impressione e non fu un successo, come non lo fu il successivo Lo Sceicco bianco dell’amico Federico Fellini, il quale, tuttavia, volle inserire Alberto anche nel successivo I vitelloni, che andò molto meglio e se non altro diede a Sordi maggiore riconoscibilità.
Fu però Stefano Vanzina, in arte Steno, a far svoltare completamente la carriera del giovane attore romano, quando gli chiese se avesse idee per un film a episodi ambientato tutto in pretura e Sordi propose il personaggio di Nando Moriconi detto l’americano: il suo episodio, nel film collettivo Un giorno in pretura fu un successo e subito dopo arrivò Un Americano a Roma e con questo l’inizio di una carriera straordinaria per l’allora trentaquatrenne Alberto, unica, eccezionale, sulla cui accelerazione la fiction di Luca Manfredi si ferma, dopo aver raccontato il conflitto interiore e la tenacia con cui Alberto seppe superare i momenti difficili e lo scetticismo di molti.
Non quello di Fellini, sulla cui figura (e sul legame d’amicizia affettuoso che corse tra i due in quegli anni) “Permette, Alberto Sordi” si sofferma molto, così come sulla lunga storia d’amore di Alberto con Andreina Pagnani, attrice e doppiatrice più grande di lui di 14 anni.
Nel complesso, l’omaggio del servizio pubblico al grande attore italiano nell’anno del centenario (il prossimo 15 giugno Sordi avrebbe compiuto 100 anni) è compilativo nella sua parzialità e un po’ didascalico, non troppo accentuato nei chiaroscuri e nella drammatizzazione dei personaggi ma capace di scorrere morbidamente e a tratti piacevolmente dentro una Roma accogliente e luminosa, piena di scorci suggestivi e di sapori ormai lontani nei quali prende forma la parte più nascosta, meno trionfante della carriera grande Alberto Sordi.